Il cinema di Matt Reeves è fondato sullo sguardo. Non a caso The Batman si apre con una sequenza senza precedenti: una soggettiva, l’immagine che passa attraverso un binocolo. Forse nei decenni ci si è dimenticati che l'Uomo Pipistrello è il più grande detective in attività. Non è un paladino muscolare e selvaggio, ha fatto dell’ingegno la sua arma più potente. Superiamo gli anni Sessanta, Tim Burton, Joel Schumacher, Zack Snyder e anche Christopher Nolan. Reeves ha creato la sua chiave personale, il suo universo. Dall’oscurità di Gotham sorge l’incubo, la parabola di un cavaliere imperfetto, che nell’inseguire la giustizia spera nella redenzione. Ci si concentra quindi sul viso scavato di Robert Pattinson, sui demoni che deve tenere a bada, sui cattivi che non smettono di attaccare il suo precario equilibro.

È una guerra, la stessa di Cloverfield, dove il terrore dell’11 settembre si concretizzava in una bestia venuta dallo spazio profondo. Non è un caso che il titolo originale dell’unico horror girato da Reeves sia Let Me In (Lasciami entrare). Il cineasta porta il conflitto in luoghi chiusi, circoscritti, costellati di fortezze reali o immaginarie da assaltare, come in Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie e War – Il pianeta delle scimmie. Chi sono quindi i salvatori di Reeves? Uomini tormentati, indomabili, che trasformano i loro traumi in armi da scatenare contro avversari brutali. Anche loro sono vittime, del sistema, dell’esistenza. La luce è poca, siamo sempre nel buio dell’insicurezza, schiacciati dal peso delle responsabilità, continuamente bagnati dalla pioggia. Il Bruce Wayne di Robert Pattinson è figlio di questo processo creativo. Ne abbiamo parlato con Matt Reeves. Entusiasta, pieno di energia, aveva appena finito di sistemare gli ultimi dettagli di questa epopea fluviale, di quasi tre ore. Il regista si conferma uno dei talenti più interessanti di oggi, specialmente quando gli vengono affidate grosse produzioni. In pochi sanno dar vita a una cifra stilistica così marcata, riconoscibile, che sa come districarsi tra intimismo ed effetti speciali, mettendo in scena una realtà di fantasmi e ombre.

Nel cast, oltre a Pattinson, spiccano Zoë Kravitz, Paul Dano, John Turturro, Colin Farrel, Andy Serkis e Jeffrey Wright. “Stavo finendo The War – Il pianeta delle scimmie. Era un periodo molto intenso, la postproduzione era complessa. Pensate la difficoltà nel rendere gli uomini dei primati, è stato come girare due film in uno. Mi mancavano ancora sei mesi per finire e, proprio nel mezzo di tutto questo, ho ricevuto una telefonata: la Warner Bros voleva parlare di Batman. Sono un fan da quando ero bambino, guardavo l’Uomo Pipistrello interpretato da Adam West in televisione. Quando era uscito il primo trailer di Batman di Tim Burton nel 1989 ero davvero emozionato. Sono state realizzate delle avventure pazzesche, come quelle di Nolan. Ho subito detto che ci sarebbe voluto molto tempo, dovevo trovare una mia via, un modo per rinnovare il personaggio. Tutti i giorni, in questi anni, mi sono chiesto che cosa potesse pensare Bruce Wayne, come potesse sentirsi. L’unico modo era scavare in profondità, nell’inconscio, nei tormenti. All’inizio mi era stata proposta una sceneggiatura più vicina a un capitolo di James Bond, e volevo farmi da parte. Ma mi hanno dato la possibilità di ripartire, e soprattutto, con mia grande sorpresa, mi hanno aspettato. In un periodo di transizione, il protagonista doveva essere Ben Affleck. Ma poi è cambiato tutto, non volevo qualcosa che si concentrasse solo sull’azione. Bisognava trovare un senso, rielaborare il genere”, spiega Reeves.

Ed è arrivato Robert Pattinson.

Batman doveva essere inesperto, imperfetto, e soprattutto giovane, sui trent’anni. Il mio amico cineasta James Gray mi ha parlato di Pattinson in relazione al suo Civiltà perduta (The Lost City of Z). In quel film mi aveva davvero colpito, come anche quando ha collaborato con David Cronenberg. Ha un’espressività unica. Pensiamo un attimo a Good Time dei fratelli Safdie, alla sua capacità di essere ossessivo, di trasmettere disperazione. Quello doveva essere il mio Batman. Mi sono messo a scrivere avendo lui come riferimento, e non avevo idea se avrebbe accettato, se avrebbe abbandonato l’indie per immergersi in un blockbuster. Ci siamo incontrati, ed è scattata subito una grande intesa, che poi è proseguita sul set.

Chi è Batman per lei?

La vita è una battaglia, essere uomini è un compito difficile. Lui si è confrontato con la tragedia da bambino, ed è stato spinto verso la sua indole di supereroe. Mi sono accostato al mito, e l’ho destrutturato, per renderlo più simile a noi. Ognuno ha le sue sfide con cui deve rapportarsi, tutti abbiamo le nostre ferite. Il mio luogo sicuro è la macchina da presa, che mi permette di analizzare quello che mi circonda. Allo stesso modo Batman è diventato un supereroe non per salvare Gotham, ma sé stesso, trovando il significato della sua sofferenza. Ogni nostra azione è mossa da motivazioni nascoste dentro di noi, ed è quello che cerco di trasmettere attraverso le mie storie. Il potere del cinema è quello di metterti nei panni di qualcuno che non sei tu. E questo non vale solo per le persone perbene, ma anche per i villain. Spesso si fa l’errore di pensare che i nostri paladini siano granitici, impermeabili a tutto. Li si guarda come dei simboli, e non come esseri fatti di carne e sangue.

 

The Batman - Copyright: © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved.
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È vero che si è ispirato anche a David Fincher?

Certo, e non solo. È sempre fondamentale seguire il proprio punto di vista nella narrazione, riunendo gli elementi che hai dentro. Mi ricordo in modo vivido di quando a tredici anni mio padre mi ha portato a vedere Toro scatenato. Ancora adesso è uno dei miei film preferiti. E poi ho scoperto Hitchcock. Fincher mi ha ispirato per il serial killer, specialmente con Zodiac, gli indovinelli, il mio Enigmista. Per la rappresentazione del potere mi sono affidato a Tutti gli uomini del presidente, agli anni Settanta, anche a Quarto potere, a quel senso di isolamento e di infelicità che è l’altra faccia della ricchezza. E poi Chinatown, Il braccio violento della legge e quei classici con cui sono cresciuto.

Che cosa è cambiato nel suo cinema da Cloverfield?

Quella fu un’esperienza incredibile. La videocamera amatoriale con cui giravo era la vera protagonista, il cardine dell’intero progetto. Anche se poi i miei film successivi sono stati molto diversi, direi che il principio è sempre lo stesso: rendere la vicenda qualcosa di personale attraverso lo sguardo. Ogni volta imparo qualcosa di nuovo, perché gli ostacoli non sono mai gli stessi. I nuovi titoli su cui lavorare iniziano allo stesso modo: nell’oscurità, con le mani e i piedi nel fango. Siamo noi che dobbiamo accendere poi la nostra luce. Di sicuro da allora è diminuita l’ansia. Cloverfield era stato frenetico. Oggi mantengo quelle sensazioni, ma riesco a dominarle meglio. Ho capito che bisogna fidarsi del processo produttivo, fermandosi anche se qualcosa non funziona e ricominciando mesi dopo. Non si possono avere tutte le risposte subito, talvolta serve un piano preciso per raggiungerle, che richiede pazienza. Il regista deve sapersi relazionare con il caos, con le sorprese e gli imprevisti all’ordine del giorno.

 

È vero che ha collaborato anche con Steven Spielberg?

C’era un festival in cui un ragazzo mostrava gli 8mm di alcuni vecchi film. Un giornalista del Los Angeles Times scrisse sopra un articolo. E a leggerlo fu Steven Spielberg, che volle vederli. All’epoca la sua collaboratrice era Kathleen Kennedy. Le chiese di chiamare tutti i giovani di quel festival per far loro restaurare i suoi Super 8, così ho incontrato per la prima volta Steven Spielberg. Più tardi, quando ho diretto Blood Story, non avevo mai avuto davanti la macchina da presa dei bambini, e ho chiamato Spielberg. Lui mi ha spiegato ogni cosa, dal dove posizionarli negli interni a come far loro recitare le battute. Da allora è sempre stato disponibile, mi ha aiutato spesso. È sempre stato molto generoso.

The Batman è solo il punto di partenza per un nuovo franchise?

L’obiettivo è stato quello di ricreare un mondo. Non voglio che The Batman venga percepito come un primo capitolo di una lunga serie, ma come un’esperienza totalizzante. Spero che ci saranno altri film, è quello che voglio. Tutto dipende da come le persone si relazioneranno con questa storia. In realtà stiamo pensando alla nascita di un nuovo universo, a un punto d’incontro tra grande e piccolo schermo. Potrebbe esserci un cross over con una serie su Pinguino, per esempio, interpretato da Colin Farrel. Potrebbe essere una parabola incentrata sul sogno americano a Gotham, come I Soprano. Sarebbe per HBO Max, ed è tutto emozionante. Dobbiamo aspettare, vogliamo essere ottimisti.