Umberto Eco, scrittore, semiologo, docente, amava insegnare che solo studiando la cultura popolare, di massa si diceva negli Anni Sessanta del secolo passato, comprendiamo il presente. E l’editore Giangiacomo Feltrinelli notava come la coscienza di una nazione si formi dai libri più diffusi, non importa se “buoni” o “cattivi” secondo i critici.

Fra il 1931 e il 1933, il filosofo Walter Benjamin, nel dramma radiofonico - tecnica allora sperimentale come i podcast oggi - “Cosa leggevano i tedeschi mentre i loro classici scrivevano”, Einaudi, induce alla stessa riflessione: il canone culturale preserva capolavori, Dante, Shakespeare, Virginia Woolf, poi Rossellini, Malle, Cavani e noi, fin da scuola, pensiamo quindi che gli antenati si nutrissero delle loro opere. No: dimentichiamo, deviati dai libri di testo, le saghe popolari, i burattini, le favole orali, i romanzi popolari di Nino Salvaneschi, Liala, i fotoromanzi, Bolero Film, i “musicarelli”, film costruiti al volo su canzoni di successo, Carosone, Morandi, Caselli, cantanti famosi circondati da veri attori, i fumetti, Il Monello.

Così, perdiamo di vista il nostro tempo: il ritardo, per fare mea culpa in diretta, con cui ho riconosciuto l’avvento di Brexit in Gran Bretagna e Donald Trump negli Stati Uniti, nel 2016, si deve all’avere trascurato la regola del maestro Eco. Semplicemente, come tanti nei media, trascuravo i talk populisti del Regno Unito, certi talent e reality rissosi, non seguivo le saghe dei ricchi e basta alla Kardashian, mix di materialismo, odio e soggezione per l’élite, sciovinismo, sessismo che passano sotto pelle.

Antidoto a questo errore, per fortuna, è stata la lettura dei romanzi thriller dello scrittore inglese Lee Child, pseudonimo di James Dover Grant, funzionario televisivo licenziato nel 1995 per le ristrutturazioni aziendali che han massacrato il ceto medio e operai, scatenandone la reazione popolare alle urne. Grant adotta il nome Lee Child, perché, mi confessò in un colloquio per La Stampa, “nelle librerie degli aeroporti piazza i miei volumi, in ordine alfabetico, fra Agatha Christie e Raymond Chandler e speravo i lettori li notassero”.

Alan Ritchson, protagonista della serie Reacher

Li notano: Jack Reacher, eroe della serie, è un ex maggiore dell’esercito Usa, prepensionato per la fine della Guerra Fredda, che viaggia da solo, senza valigia, per l’America, distribuendo, Cavaliere Errante del mercato post-industriale, la giustizia che sindaci corrotti, imprenditori avidi e gang criminali negano alla povera gente. Reacher, alto, massiccio, formidabile, arriva per la prima volta sugli schermi nel 2012, in un movimentato film di Christopher McQuarrie, con Tom Cruise, Jack Reacher, la critica lo snobba, al pubblico piace, ma i lettori fedeli son perplessi, Jack è gigante di forza, peso, muscoli, Cruise non lo rende affatto.

Rimedia ora la serie televisiva in onda su Prime Video, Reacher, con McQuarrie e Child fra i produttori, e la regia delle puntate in mano a vari autori. Protagonista il ben più credibile Alan Ritchson, attore tv, come Reacher figlio di un militare, fisico da culturista, laconico, dolce con i buoni, salva un cane dagli abusi, feroce con i cattivi, schiaffa il cadavere di killer nel bagagliaio massacrandogli le ossa. Reacher vaga per l’America alla Nomadland, poco lavoro mal pagato, opportunità ai ricchi e oppiacei ai poveri, la legge a difendere le ingiustizie, la politica cieca alla gente comune. Se tornasse Walter Benjamin a chiederci: cosa appassiona gli americani mentre De Lillo e Wes Anderson lavorano? Rispondete pure Reacher!