(Cinematografo.it/AdnKronos) - Nel cuore dell’Italia, una città ridotta in macerie: è l’Aquila dopo il terremoto che l’ha colpita nel 2009. Un anno più tardi i suoi abitanti provano a riprendere in mano i fili delle loro vite spezzate, ognuno a modo suo.

A raccontarli è L’Aquila - Grandi speranze, una coproduzione Rai Fiction - IdeaCinema con Donatella Finocchiaro, Giorgio Tirabassi, Giorgio Marchesi, con Luca Barbareschi e la partecipazione di Valentina Lodovini. Nel cast, tra gli altri, anche Francesca Inaudi, Carlotta Natoli ed Enrico Ianniello.

La serie, in sei puntate, creata da Stefano Grasso e diretta da Marco Risi, andrà in onda in prima visione su Rai1 da martedì 16 aprile alle 21,25.

Il regista Marco Risi

È trascorso un anno e mezzo da quella notte maledetta del 6 aprile 2009. A L’Aquila la vita piano piano va avanti, anche se a fatica perché è difficile dimenticare il dolore, la perdita e la paura che il terremoto ha portato con sé. I giorni e i mesi sono trascorsi inesorabili, ma le ferite della città restano lì, sotto gli occhi di tutti, immutate in un dedalo di strade, case e storia falciate via, così come nel cuore della gente che ancora ha vivido il ricordo di

quell’attimo in cui ha perso tutto, affetti compresi.

La speranza e la forza però non mancano. Lo dimostrano il coraggio quotidiano di chi è rimasto come Silvia e Franco che stanno ancora cercando la figlioletta scomparsa la notte del terremoto e la lotta di Gianni ed Elena che sono tornati a L’Aquila per scuotere gli animi e inseguire il sogno della ricostruzione. Ed ecco che, nonostante il carico di dolore delle loro famiglie, gli occhi intraprendenti e volitivi di due tredicenni, Simone e Davide e dei loro amici, vedono oltre la distruzione e così la ’zona rossa’, area pericolosa e dall’accesso vietato, si trasforma in un affascinante e proibito parco giochi da conquistare e difendere dalle bande rivali di coetanei.

"L’Aquila - Grandi speranze è il racconto che nasce da un’idea di Stefano Grasso, un giovane e brillante autore trentenne, che ha creato un high concept potente. Il titolo rappresenta una sintesi narrativa e simbolica: la Città e il Terremoto che l’ha devastata, la reazione di chi è restato e il motore, grande, della Speranza. Un luogo e un atteggiamento che diventa un valore".

Eleonora Andreatta, direttore di Rai Fiction, ha riassunto così il senso profondo di L’Aquila - Grandi speranze, presentata nel capoluogo abruzzese.

"Rai Fiction l’ha scelto perché ci è parso un racconto doveroso", ha aggiunto Andreatta, sottolineando "la necessità di raccontare cosa sta succedendo, dopo la catastrofe e le rovine. L’Aquila è una ferita aperta". Di fronte a questo è "un compito necessario per la fiction del servizio pubblico, la vicinanza a una tragedia e, a distanza di dieci anni dalla scossa rovinosa del 6 aprile 2009, tornare con la partecipazione e, al tempo stesso, la distanza e la misura necessarie".

L’Aquila - Grandi speranze per Andreatta è "un esempio di come e quanto la fiction possa stare nell’attualità e contribuire al racconto del Paese, alla testimonianza partecipe e alla riflessione su problemi drammatici, che restano aperti. Raccontare è il compito e la forza della fiction. Raccontare la contemporaneità e il primo compito della fiction del servizio pubblico. Per questo abbiamo immaginato una narrazione che con rispetto, oltre la cronaca e l’informazione, potesse tradurre i problemi e le difficoltà nel vissuto quotidiano di chi è rimasto e continua a lottare per la rinascita della città attraverso storie e personaggi".

"Abbiamo messo in scena la vita, il dolore, la perdita, il bisogno di elaborare la tragedia, la speranza e la diversità dei punti di vista", riassume Andreatta, che aggiunge: "Con la responsabilità e il rispetto che si devono alla realtà, abbiamo raccontato da un punto di vista intergenerazionale: Le famiglie e dunque i genitori e i figli, i problemi che nascono dal vivere in quella situazione, dall’attesa di una ricostruzione, dalla necessità di elaborare la tragedia e di andare oltre, con uno sguardo e una prospettiva sul futuro".

"Mentre gli adulti guardano al passato, a ciò che hanno perso, cercando di cauterizzare le ferite e con la fatica di ricominciare, un gruppo di ragazzi di 12 anni guarda verso il futuro, affronta le scoperte, i dolori e i sentimenti dell’attraversamento della soglia dell’adolescenza. Una storia di formazione ambientata nella zona rossa della città distrutta. Una ferita aperta raccontata - rivendica Andreatta - con un taglio narrativo inedito".

"La chiave del racconto, la più adatta a rendere questo intreccio di generazioni e di fili narrativi mescola il drama e il coming of age, con un’aggiunta di mistery. La molteplicità e l’incastro dei generi, non (solo) un gioco narrativo, ma la necessità di rendere la complessità dei sentimenti in gioco fare una serie che avesse un equilibrio fra narrazione e realtà. Fondamentale è stata la scelta del set reale de L’Aquila del post-terremoto. E questo è un valore etico, non solo narrativo. La fiction - conclude Andreatta - si è assunta una responsabilità di essere lì".

Nel primo episodio a L’Aquila è passato un anno e mezzo dalla notte del 6 aprile 2009: la città è distrutta, l’accesso al centro storico vietato. Ma Simone, Davide e i loro amici hanno tredici anni e a quell’età non esistono divieti: dopo il terremoto la "zona rossa" è diventata il loro regno. Il possesso del territorio è però insidiato da una banda rivale: tra macerie e case abbandonate, i due gruppi si fanno la guerra per conquistare il Palazzo del Governo.

I genitori di Davide, Silvia e Franco, devono far fronte a un tragico evento: la sparizione della figlia più piccola, Costanza, avvenuta la notte del terremoto. L’archiviazione del caso e la sospensione delle ricerche apre tra loro una crisi ancora più profonda. A casa di Simone invece, Gianni ed Elena, appena tornati a vivere nel centro storico, organizzano una grande protesta che ha una sola parola d’ordine: ricostruzione.

Da poco, inoltre, a L’Aquila si è trasferito Riccardo De Angelis, un costruttore romano, giunto lì assieme a Margherita, la figlia tredicenne. La loro presenza suscita curiosità e sospetti tra gli adulti, fibrillazione tra i ragazzini che si ritrovano Margherita come compagna di classe.

"Io non sono aquilano - sottolinea anche l’autore della serie, Stefano Grasso - Sono stato la prima volta all’Aquila nel 2013, a quattro anni di distanza dal terremoto che l’aveva cambiata per sempre. Non l’ho mai vista prima, e questo ’mancato appuntamento’ è direttamente legato alla genesi della storia che parecchio tempo dopo ho deciso di scrivere. Quella volta, in realtà, ero andato all’Aquila insieme a un’amica con l’idea di un documentario che poi non è mai stato fatto. Mi ricordo precisamente - nonostante da allora siano passati più di cinque anni - le sensazioni che ho provato quel sabato mattina di gennaio".

"Avevo visto in televisione servizi e reportage nei giorni successivi al sisma, avevo letto e mi ero documentato, perché già dal divano di casa la storia di una città così importante che improvvisamente, nel giro di una notte, smette di esistere mi aveva colpito profondamente. Ma - prosegue Grasso - trovarmi lì, a camminare in quelle strade deserte e abbandonate, era diverso, forse stavo provando qualcosa di simile a quelli che pensano di sapere cosa sia la guerra e ne capiscono la reale crudezza soltanto quando ci si trovano dentro".

"Nel giorno di quella mia prima visita erano passati quattro anni dal terremoto, eppure -sottolinea Grasso - il tempo sembrava essersi fermato. Nessun negozio aveva riaperto, nessun abitante era tornato a vivere lì: una città fantasma. Somigliava davvero a uno scenario di guerra, o un’apocalisse. Ma non eravamo in qualche posto lontano dalla nostra cosiddetta civiltà, o nel futuro di un film di fantascienza. Ci trovavamo, io e la mia amica, a un’ora di macchina da Roma, nel cuore dell’Italia".

"Provai un senso d’incredulità e poi un moto di indignazione, ma subito dopo anche qualcos’altro, qualcosa di meno istintivo e più profondo, che rimase lì a lavorare dentro di me, e mi accompagnò nel mio ritorno verso casa. Non riuscivo a definirlo, ma - ricorda Grasso - intuivo che quel sentimento era all’origine della mia decisione di abbandonare l’idea del documentario e di cominciare invece a scrivere una storia di finzione ambientata all’Aquila. Sapevo che stavo andando incontro a qualcosa di molto rischioso: un racconto per forza di cose deve anche intrattenere, e sarei stato capace di farlo nel rispetto del dolore di chi all’Aquila aveva perso genitori, figli, case?"

"Per alcuni mesi abbandonai l’idea del progetto e la ripresi soltanto quando realizzai che cos’era esattamente quella sensazione che avevo provato durante la mia prima visita: era un rimpianto. Un rimpianto struggente, pieno di malinconia, per qualcosa di bello che mi ero perso per sempre - lamenta Grasso - una comunità che prima viveva e respirava in un modo suo, diverso da ogni altra città nel mondo, come sono diverse le persone le une dalle altre, e che adesso non esisteva più"..

"Era su quello che potevo lavorare, perché quel rimpianto era anche mio, e quindi lo potevo condividere: da lì è nata l’idea che è stata poi la base del racconto, il mio rimpianto è diventato quello di quattro ragazzini che non si sono rassegnati a perdere la loro città e decidono, nonostante tutto e tutti, di continuare a viverla. Attraverso di loro ho pensato che avrei potuto viverla anch’io e farla vivere alle persone che avrebbero visto questa storia", conclude Grasso.