“La famiglia Samouni il film non l’ha ancora visto, glielo ho raccontato a pezzi, per ora. Gaza non è un posto facile, né in accesso né in uscita: gli ho mostrato le animazioni, affinché potessero doppiarsi in parte, giacché hanno solo due ore elettricità al giorno. Spero, anzi, ho promesso di tornare entro fine anno a mostrarglielo”. Parola di Stefano Savona, che rappresenta l’Italia alla 50esima Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 71: con le animazioni di Simone Massi, La strada dei Samouni (Samouni Road) trova il filo dei ricordi, e con immagini documentaristiche e racconto animato disegna un ritratto di famiglia in interno bellico, prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno stravolto le loro vite in quel gennaio del 2009, quando, durante l’operazione Piombo fuso, vengono massacrati 29 membri della famiglia Samouni, contadini abitanti nei dintorni di Gaza.

La strada dei Samouni
La strada dei Samouni
La strada dei Samouni
La strada dei Samouni

Savona rigetta analogie con Valzer con Bashir,  sottolinea una natura documentaristica di queste animazioni, parlando del “lavoro sulla memoria di un artista schivo e 25 disegnatori, che sulla base della ricostruzione in 3D del quartiere e dei personaggi hanno realizzato le animazioni impiegando cinque anni, levando via la creta dai fogli con sgorbie e punte per trovare le immagini intese”.

Basato sui risultati di due commissioni di inchiesta, una delle Nazioni Unite e l’altra delle Forze armate israeliane, Samouni Road fa seguito a Piombo fuso, documentario di Savona girato a Gaza durante la guerra, desunto “dalla volontà di superare l’embargo delle immagini, provando a raccontare il conflitto dall’interno”. “La storia – prosegue Savona – è cominciata lì, dai visi delle persone, che raccontano con dolcezza una storia tremenda: i Samouni mi hanno in parte adottato, mi hanno dato un accesso incondizionato. Siamo con loro e qualcosa succede, inaspettatamente: questo è il cinema”.

Venendo al coté geopolitico, il regista rifugge il “processo di semplificazione, viceversa, volevamo raccontare semplicemente una storia complicata: da archeologi possiamo capire guardando le macerie, am solo se le ricostruiamo. Una fatica che ci siamo assunti coscientemente, trovando questa goccia in una storia che non c'è, una storia partigiana, persone che non conoscono quelli da altra parte. Noi non possiamo giustificare questo punto di vista univoco, ma il film è vissuto dalla parte palestinese: guardavo non da un drone, ma ad altezza uomo. Il cinema è fatto per opporsi al tempo, alle macerie: la distruzione è fotogenica, ma non deve esserci compiacimento, perché sarebbe colpevole”.

Della partita Simone Massi, abituato con i suoi corti di questa peculiare animazione a “raccontare la civiltà contadina delle Marche e la guerra partigiana”, due temi in cui Savona ravvisa elementi di continuità importanti in Samouni Road: “Sulla natura contadina di questi palestinesi non si discute, mentre la Resistenza qui è subita oltre che scelta come nell’Italia partigiana”.

Infine, Savona riconosce al cinema una precisa missione,  quella di “trasmettere la memoria, senza indulgere nell’idolatria del passato. La memoria di padre in figlio, che si interrompe per la modernità, la guerra, e questa cesura tra generazioni è sempre un momento di choc”, mentre Massi si augura che possa “avvenire il bell’incontro tra i giovani Samouni e i ragazzi che con me li hanno disegnati”.