Non è un revisionismo d'antan, ma un forte senso di inquietudine: anche nella solidità di economie ruggenti o nella pax sociale ritrovata, possono far breccia fantasmi del passato e paure del presente. Due Paesi rappresentano questo diaframma con la loro storia, al Far East Film Festival: la Corea del Sud, sempre ampiamente rappresentata con una serie di interessantissimi titoli, e per la prima volta al Festival la Cambogia, con un debutto estremamente interessante. E di mano femminile: Sotho Kulikar è nata nel 1973 e cresciuta subendo gli anni spaventosi della dittatura dei khmer rossi. Ha perso in quel periodo il padre e proprio a lui ha dedicato la sua opera prima come regista,The last reel - L'ultimo rullo.

Sophoun e Veasna sono due ragazzi che flirtano in un luccicante parco giochi: poco sanno di quanto abbiano sofferto i loro connazionali. Ma alla ragazza accade qualcosa di straordinario: entra in un cinema di Phnom Penh mentre stanno proiettando, in una sala vuota, una vecchia pellicola, La lunga strada verso casa, che però si interrompe, mancando appunto l'ultimo rullo. Incontra il proprietario, Sokha, che con quel film ha un passato in sospeso. E scopre che ne è protagonista la madre, una star in ascesa che la rivoluzione deportò nei campi di lavoro (interpretata da una vera star del cinema khmer classico, Dy Saveth). Da lì i legami familiari della ragazza svelano segreti e tradimenti, un melodramma familiare e storico che ha una sua coerenza e originalità, perché è proprio attraverso una riflessione del cinema sul cinema, in una memoria collettiva di immagini e volti, che si fa strada la verità e la denuncia. Un film onesto e a suo modo naïf, dedicato ai registi e agli attori scomparsi, parte di quel milione e ottocentomila cambogiani sterminati dall'odioso regime. Che non risparmiò nessuna espressione culturale e il cinema: furono chiuse o bruciate tutte le sale, mentre dei 300 film prodotti prima dell'avvento dei khmer rossi, oggi ne sono rimasti trenta.

Anche la Corea, a forti tinte drammatiche, fa un balzo indietro, negli anni segnati dalla guerra che ha portato alla divisione tra il Nord e il Sud. Duk-soo, il protagonista di Ode a mio padre del regista Jk Youn, è un uomo che si è speso in tutto per la famiglia, nel ricordo mitizzato del padre, perso nel drammatico giorno in cui la sua città natale, Hungnam, cadde nelle mani dell'esercito cinese. Nevicava, era il dicembre del 1950. Popolazione in fuga, esodo di massa, panico e morti. Anche la sorellina, prendendo d'assalto una nave americana, cade nei flutti. Vite marchiate dal dolore. Il film racconta dell'infanzia affamata di Duk-soo, poi minatore in Germania negli anni '60, commerciante a Busan nella decade successiva e soldato in Vietnam, infine nonno tormentato dal rimorso ai giorni nostri. Sempre nel ricordo di quella separazione e dell'attesa. Ma in un orizzonte nel quale il regista non risparmia in fondo di denunciare le ferite ancora e sempre aperte createsi all'indomani dell'armistizio del '53, con una guerra mai ufficialmente chiusa. E che le famiglie coreane subiscono, senza poter ancora intravederne una cura e la fine.