Si dice, di coloro che non sono intervenuti di fronte all’energumeno Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo che uccideva l’ambulante Alika Ogorchukwuch a Civitanova Marche, che “non hanno fatto niente”.

Chi lo sostiene si rende forse (ir)responsabile di un atto mancato, giacché derubrica il guardare di quei non intervenuti a non attività, a passività, a non fare niente.

Guardare è non fare niente?

Guardare non ci riguarda e - vale almeno per uno dei non intervenuti – filmare non ci riguarda?

Si dice, di coloro che non sono intervenuti di fronte all’energumeno che uccideva l’ambulante, che non è vero “non hanno fatto niente”, giacché il loro essere spettatori li ha resi testimoni – per giunta, dirimenti sotto il profilo giudiziario.

Guardare è essere qualcosa, addirittura, qualcuno?

Guardare ci riguarda e - vale almeno per uno dei non intervenuti – filmare ci riguarda?

Il guardare è prossimo al non fare niente o a essere qualcuno, il testimone?

E “guardare e basta”, dunque, ha senso e, nel caso, come ci qualificherebbe?

Coloro che non sono intervenuti di fronte all’energumeno che uccideva l’ambulante sono colpevoli di non aver fatto niente o di aver guardato male, di inazione o di incomprensione?

Uno snuff movie in fieri, questo hanno guardato, addirittura, sceneggiato e filmato?

Torna buona la parola tedesca Einstellung, che nel linguaggio cinematografico è inquadratura, ma ancor prima nella lingua comune posizione rispetto al mondo. In altre parole, guardare è azione?

"Dietro ogni inquadratura – ha scritto Wim Wenders nel mirabile L’atto di vedere - c'è sempre una persona che la realizza e che prende posizione rispetto a ciò che viene inquadrato. Direi che la morale, l'atto morale insito in ogni inquadratura consiste nel rispetto sia nei confronti di ciò che la cinepresa riprende, che verso il significato veicolato e poi proiettato sullo schermo. Questo atto di fissare e conservare un senso in un'immagine possiamo considerarlo morale, credo, solo come rispetto. Un cineasta fa ogni sforzo per portare rispetto verso l'oggetto dell'immagine e il contenuto di verità che comunica. Non tutti credono a questa caratteristica del cinema: dietro ogni inquadratura si possono intuire le attitudini delle persone nascoste dietro la macchina da presa, e che portano la responsabilità del film. Io credo fermamente che ogni inquadratura rispecchi anche l'indole del cineasta, e che ogni immagine ci mostri ciò che sta davanti e, al contempo, dietro la macchina da presa. La cinepresa funziona in due direzioni, mostra i suoi oggetti ma anche i soggetti”.

Questo pezzo è stato originariamente pubblicato, il 4 agosto 2022, sul n. 9 di Koyaanisqatsila newsletter di Cinematografo.it: per iscriversi.