Scampato alle persecuzioni in Afghanistan ancora bambino, Ismail (Basir Ahang) vive in Europa con il fratello Hassan: la madre rimasta nel vicino Pakistan improvvisamente non lo riconosce più. Forse è tempo di raggiungerla, lasciandosi dietro quella che è più di un’amica (Tihana Lazovic), per fronteggiare non solo le vicissitudini familiari, ma il destino di un intero popolo massacrato, gli hazara.

Costanza Quatriglio, quindici anni dopo L’isola torni con Sembra mio figlio al lungometraggio di finzione, ma forse è solo, sempre e comunque, cinema.

Sono d’accordo: è solo, sempre e comunque, cinema! Le definizioni mi stavano strette già con L’isola, e quando poi ho scelto di fare documentari sono stata presa per pazza! Per tanti anni il documentario è stato marginale sebbene fosse sempre più vitale; oggi è chiaro a tutti che in quella forma si è espressa un’intera generazione che ha rivitalizzato la nostra cinematografia. È stato nel 2005, durante le riprese de Il mondo addosso che raccontava storie di bambini e adolescenti migranti - minori stranieri non accompagnati - che ho conosciuto Jan, che ha ispirato, anni dopo, la storia di Sembra mio figlio.

Si sente forte la prossimità al cinema iraniano, in particolare quello del compianto Abbas Kiarostami.

Ho avuto la fortuna di frequentare un corso tenuto da Kiarostami nel 1996, ero giovanissima, vivevo a Palermo e non sapevo ancora che da lì a poco sarei stata ammessa a studiare regia al Centro Sperimentale. Incredibilmente quel workshop si è rivelato fondativo per tanti di noi, persino per Abbas che ha ringraziato “i ragazzi di Palermo” nei titoli di coda de Il sapore della ciliegia perché – ha dichiarato – il sorprendente finale era arrivato in seguito a quei meravigliosi giorni trascorsi insieme. Da allora Kiarostami è stato un punto di riferimento. La sera che seppi che L’isola era stato invitato a Cannes brindammo e lui si offrì con slancio di disegnare la locandina. Sono stata così timida da declinare l’invito davanti a tutti, senza rendermi conto della stupidaggine. Per anni Kiarostami ha frequentato l’Italia e insieme a lui e a Babak Karimi passavo tanto tempo con Makhmalbaf, Amir Naderi. Se devo trovare una parola per racchiudere il senso di questo lascito è Libertà. Cinema e libertà connaturati, inscindibili. Insieme al piacere di giocare con il linguaggio, a non dare mai nulla per scontato, a sentirsi felici nel mescolamento delle carte, a far convivere l’invenzione pura e ciò che più semplicemente la vita ti dona e che solo il cinema può restituire.

Come sei entrata in contatto con il popolo hazara?

Nel doc Il mondo addosso Jan non parla della sua condizione di hazara. Ho capito nel tempo cosa c’è dietro la storia di tanti figli maschi costretti, bambini, a fuggire dalla guerra e dai tentativi di genocidio. Pian piano, mi è stato chiaro che la storia privata non poteva non essere parte di una storia collettiva.

Basir Ahang e Tihana Lazovic come li hai trovati?

Per Ismail e Hassan il gioco era difficile, sapevo in partenza che avrei trovato quasi esclusivamente non attori. Con Laura Muccino e Sara Casani abbiamo setacciato tutto il mondo cercando di scovare realtà di attori e cineasti in tanti paesi occidentali ma anche a Kabul, in Iran, ovunque ci fossero realtà hazara. Basir ho avuto la fortuna di conoscerlo in Italia. Lui è un poeta e scrive testi bellissimi, il suo apporto alla lingua del film è stato fondamentale, così come la sua estrema sensibilità, quasi fosse carne viva, senza pelle. Tihana l’avevo vista in Sole Alto e non facevo che pensare a lei. La sua Nina esprime tutta la bellezza ma anche la fragilità di questo nostro continente europeo che ha conti in sospeso con intere generazioni.

È un film, già in anteprima al Festival di Locarno e dal 20 settembre in sala, che nel rapporto madre – figlio ritrova la dialettica fertile e umanissima tra conoscere, riconoscere e conoscersi: come hai triangolato questa relazione?

Attraverso gli archetipi del racconto classico. Alla domanda iniziale “Chi sei?”, pronunciando il proprio nome il figlio afferma la propria unicità di fronte alla madre che gli ha donato quel nome Ismail. Il riconoscimento della madre e il suo pianto sono sullo stesso piano. Il pianto della madre è pietà ma anche la forma più pura dell’amore. E poi c’è un altro riconoscimento, che ha a che fare con il conoscere: dal momento in cui Nina si ritrova ad essere testimone di ciò che accade nella vita di Ismail, la sua conoscenza diventa la nostra; una conoscenza che ci prepara ad accogliere ciò che accadrà quando la storia si sposterà dall’altra parte del mondo.

Come il tuo cinema è evoluto dal documentario fin qui?

Il mescolamento dei linguaggi, gli innesti sono sempre stati per me naturali; e questo film ha una radice così profonda che invera ogni singolo movimento dell’anima dei protagonisti. La pesca del tonno ne L’isola, le fosse comuni in Sembra mio figlio, sono scene in cui la finzione fa i conti con emozioni profonde, con la differenza che qui la posta in gioco è altissima: non c’è stato uomo nella scena delle fosse comuni che non abbia davvero vissuto quell’esperienza.

Ricercare una madre e cercare di fare cinema che cosa hanno in comune?

La radice del sé. La lingua che hai ricevuto e la lingua per esprimerti. In mezzo c’è il viaggio che porta alla costruzione di qualcosa di indefinibile e impalpabile che sei tu, mentre cambi nel corso della vita. Il mio più grande desiderio è cambiare sempre. Credo che la morte di un cineasta avvenga quando comincia a ripetere sé stesso.

Di che cosa ti senti figlia oggi?

Mi sento figlia di un tempo che non ha imparato dagli errori del passato e che ci chiede di assumerci ognuno la propria parte di responsabilità. Ho come la sensazione che siamo tutti figli unici, nello stesso tempo trovo entusiasmante aver chiaro che dalle rovine puoi solo ricostruire.

Che cosa c’è in quel sembra che possa istruire una figliolanza, dunque una maternità (e paternità)?

Se credi che ogni essere umano ti riguardi, in teoria non dovresti tradire l’aspettativa naturale che ciascuno di noi ha, cioè di non ricevere del male, bensì del bene. Nel titolo, il mio è collettivo; il tu invece riguarda la persona che hai di fronte, in carne e ossa, con un nome, dei desideri, una vita, una storia. Riconoscere questo significa riconoscere ogni singolo essere umano.