“Nella mia vita ho perso progressivamente tutte le mie convinzioni politiche e religiose. L’ultima è che il buddismo è una religione come tutte le altre e contiene in sé anche il male”.

Parola del regista francese Barbet Schroeder che oggi ha presentato il suo film Il venerabile W. (Wirathu) su un monaco buddhista altamente influente in Birmania che ha incitato i suoi seguaci all’islamofobia conducendoli verso l’odio e la distruzione.

“L’idea di questo film nasce da lontano - spiega il regista -. Due anni fa rilessi The Historical Buddha di Schumann e poi mi trovai di fronte a un rapporto della Yale University Law School che richiedeva pubblicamente l’intervento delle Nazioni Unite in Myanmar. Vi erano elencati tutti segnali che lasciavano presupporre nel Paese l’inizio di un genocidio contro la minoranza musulmana dei Rohingya e si sottolineava il ruolo svolto da un movimento buddhista estremista. Volevo saperne di più: mi recai a Mandalay, la città più buddhista del mondo, e lì incontrai Wirathu e gli proposi questa avventura”. 

Come è riuscito a coinvolgerlo? “Lo incontrai poco prima delle elezioni in Francia e gli dissi che Marine Le Pen condivideva molte delle sue idee e che probabilmente avrebbe fatto applicare delle leggi molto simili a quelle che lui era riuscito a far votare in Birmania. Volevo parlare dei problemi dell’Occidente avvicinandomi a un personaggio per il quale il buddhismo era intriso di nazionalismi e populismi. Non volevo esprimere un giudizio, ma alla fine è venuta fuori la verità”.

“Il venerabile Wirathu” è una contraddizione in termini: un buddhista che predica l’odio. In generale le religioni predicano la pace. C’è anche però chi le usa per veicolare parole d’odio che dopo un periodo di incubazione possono portare alla violenza e alla discriminazione. Come è successo in Birmania, dove sono riusciti ad annientare quasi la metà di questa piccola minoranza, costringendo più di 700mila persone ad andarsene, di cui tanti a rifugiarsi nel vicino Bangladesh.

Ma dietro questi incendi, arresti, torture, stupri di massa, esecuzioni e dietro tutte queste persecuzioni che hanno privato i Rohingya della nazionalità birmana e dei propri diritti costringendoli a scappare c’è qualcun’altro oltre al “Venerabile Wirathu”? 

“Nel film c’è un’intervista al giornalista spagnolo Carlos Sardina Galache, che da anni segue da vicino l’attualità birmana. Lui fa capire che ci sono soldi che provengono da persone vicine alla dittatura militare. D’altronde nei monasteri si possono fare donazioni anonime. Ho cercato delle prove concrete su questa connivenza con i militari, ma purtroppo non sono riuscito a trovarle. Inoltre non penso che i militari stiano preparando dei campi per rimpatriare i Rohingya e non credo neanche che i Rohingya tornerebbero in Birmania se non protetti dalle Nazioni Unite”.

Una figura importante in Birmania è ovviamente quella di Aung San Suu Kyi, attiva da anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo Paese, oppresso da una rigida dittatura militare, una politica che si è imposta come capo del movimento non-violento, tanto che nel 1990 le è stato assegnato il Premio Nobel per la pace. 

“Aung San Suu Kyi ha fatto una sorta di patto con i militari accettando che andassero al potere e che fossero presenti alla Camera e nei ministeri. Non si è mai interessata alla minoranza musulmana dei Rohingya e, visto la posizione che occupa, avrebbe dovuto quantomeno farsi delle domande. Sul suo sito si parla di fake news rispetto agli stupri commessi dai militari e scrive che sono i musulmani ad appiccare il fuoco nelle città. Il suo comportamento non è corretto, è abietto. Si è servita della sua leggenda ed è riuscita a manipolare il Papa e Kofi Annan. Parla tanto per non dire nulla, ma prima o poi dovrà rispondere di questa sua condotta di fronte a un tribunale”, dice il regista. 

Anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International che ha patrocinato il film, concorda: “La penso come il regista su Aung San Suu Kyi tanto che gli abbiamo ritirato un premio in favore dei diritti umani che le avevamo conferito. Questo film è un documento di straordinaria importanza che racconta come le parole d’odio portino al crimine d’odio. Una cosa che purtroppo si ripete nel corso della storia. La preparazione ai genocidi avviene in questo modo e lo schema genocidario è sempre lo stesso come l’uso di notizie false eccetera, cambia però il mezzo di propagazione. Qui c’è un monaco che gira di paese in paese per tutto il territorio aizzando le persone, in Ruanda fu la radio, in Bosnia la televisione e via dicendo”.

“Sono meccanismi universali che si possono riprodurre e che devono far riflettere”, conclude infine il regista.

Questo film, che può essere considerato l’ultima parte di una “Trilogia del Male” iniziata da Schroeder nel 1974 con un lungometraggio sul dittatore ugandese il Generale Amin Dada e poi con L’avvocato del terrore su Jacques Vergés nel 2007, uscirà al cinema il 21 marzo proprio in occasione della giornata internazionale per la discriminazione razziale distribuito da Satine Film.