Di Bettino Craxi, ovvero di Hammamet di Gianni Amelio che lo vede protagonista, Pierfrancesco Favino non dice nulla. Perché è a Taormina, prima i Nastri d’Argento e ora il 65° Film Fest, con Il traditore di Marco Bellocchio e perché non può tradire nemmeno Amelio: “Craxi? E’ bene sia Gianni a parlarne per primo. Io posso solo dire della trasformazione per incarnarlo, penso di essere l’attore adatto, perché riesco a trovare una verità intima e profonda nell'oggettivare me stesso. Non ho mai creduto che trasformazione sia imitazione, nonostante mi ci abbiano spinto Orazio Costa e Luca Ronconi. Un bambino per conoscere il mondo lo diventa, si fonde con l’esperienza, niente svela di più l’attore che non la maschera neutra, perché sei a contato con la tua neutralità”.

Ancora, nella prima masterclass di Taormina che lo vede protagonista, un accenno a Craxi: “Ero terrorizzato, ‘ma come faccio io? Poi trovi una strada, sbagli, tenti, a me piace tanto provare, il momento dell’errore è il momento della creazione”. Ed ecco Bellocchio, che lo ascolta in platea e che viene buonissimo per dire di un modo di fare cinema che forse non è più: “Il set per la generazione di Marco è quello in cui tutto può avvenire, per la mia è quello della realizzazione, e qualcosa si perde”.

Il palco del Centro congressi non è qualsiasi, per Picchio, giacché “in questo luogo nel 1991 con la classe dell’accademia, con Gifuni, Lo Cascio, venimmo al festival portando un lavoro di Costa sull’Amleto, il nostro saggio di diploma: essere qui è una grande emozione”.

De Il traditore, trionfatore ai 73esimi Nastri con sette riconoscimenti, Favino loda innanzitutto il regista: “Marco amplia anche agli altri meriti che sono suoi, è uno dei registi più in ascolto che abbia mai incontrato, ha sempre attenzione per ciò che un attore può portare, una grande rarità sopra tutto per un maestro come lui”. Non è la prima volta che i due collaborano: “Marco mi tagliò ne Il principe di Homburg: ero molto cane, e fece bene. Ma il desiderio di rivalsa mi ha fatto dire, ‘adesso prendi me’”.

Ed ecco il Tommaso Buscetta del Traditore: gli chiedono, “criminale ed eroe?”. Picchio non ci sta: “Direi criminale e basta”, fioccano gli applausi, lui pensa a Falcone, “eroe è chi ha scelto di non scappare e ha pagato con la vita”. La misura è mezza, è quella giusta: “Ho sempre pensato che le lacrime per dei figli morti possiamo condividerle”. Il tradimento sottile e pervasivo, sicché il primo di Masino fu nei confronti di “qualcosa a cui non voleva assomigliare, se stesso: figlio di vetrai, mafioso per scelta, continuò a cambiare faccia”. Favino no, non più: “Rispetto agli inizi, non c'è più lo sforzo di assomigliare a ciò che faccio, sono io, oggi”. Tra palco e realtà: “Se sono così a casa? Ma no, sai che palle… Siamo ciò che è la relazione con quella persona, perché dobbiamo sopravvivere”.

Ritorna Buscetta, che “emanava carisma: era nato leader naturale e ha scelto di non esserlo, non c'è pubblico ministero che non me lo abbia detto, del suo fascino, per tacere delle mogli”. Ritorna Buscetta, parlando di un concetto di “identità che non mi ha mai interessato particolarmente”, perché “Masino non parlava in quel modo, voleva parlare in quel modo. Lui nasceva palermitano di Porta Nuova (il puparo Enzo Mancuso lo ha aiutato a ritrovare quel dialetto, NdR), ma le storie sono come ci rapportiamo agli altri”.

Passare dietro la macchina da presa, lo farà Favino un giorno? “Sì, ci penso, ma poi quando incontri questi qui (Bellocchio, NdR) pensi che è meglio di no. Comunque, mi piace collezionare macchine da presa, piccoli carrelli, e amo la luce: se non fossi attore, direttore fotografia mi sarebbe piaciuto”.

Prossimamente, oltre che in Hammamet, ne I migliori anni di Gabriele Muccino e Nel sole di Claudio Noce, anche prodotto, Favino confessa: “Ci sono film per cui non sono giusto, lo so, non posso fare tutto, forse perché sono attore che interpreta, e a non tutti piace l’interprete”. E conclude, aprendo al futuro: quello dischiuso gratuitamente a quanti, ragazzi, vogliano fare il suo lavoro, giacché “il talento non nasce per forza nelle case dei ricchi, e non tutti hanno 20mila sterline per andare a Londra a studiare cinema”. E quello delle sue due figlie, che “cresciute in classi multirazziali non hanno assolutamente il problema di cui si parla sui giornali”.

Già, “i ragazzi molto più attivi di quanto vogliamo immaginare o ci piaccia pensare”.