Un'altra giornata di Concorso intensa nella domenica della Berlinale, con quattro titoli interessanti, seppure non svettanti. Il primo lavoro in gara è stato il nuovo film del cinese Li Ruijun, Return to Dust, che come da titolo, segna un ritorno ad un cinema rurale, ambientato nell'arido nord ovest della Cina, terra d'origine del regista. Il racconto, classicissimo, parte da un matrimonio di convenienza orchestrato da famiglie che si vogliono liberare di due marginali, l'anziano scapolo Ma Youtie e la disabile Cao Guiying. Tra i due nasce un tenero rapporto che li unisce nelle difficoltà della vita nei campi e contro l'ostracismo e lo sfruttamento da parte del mondo che li circonda. Un lavoro pulito e di assoluto decoro stilistico, in cui si ritrova pure una sentita sincerità. Ma si tratta anche di un'opera che s'inscrive in una tradizione consolidata del cinema cinese e la cui cifra si riallaccia ad un approccio che è più prossima all'opera di un cineasta della Quarta Generazione del cinema cinese come Xie Fei (Orso d'oro a Berlino 1993 per Women of the Scented Soul Lake) che all'estetica seguita alla Quinta Generazione di Zhang Yimou e Chen Kaige. Nulla di male in tutto ciò; ma è sintomatico che all'epoca di Xi Jingping, il cinema cinese 'ufficiale' debba tornare a forme e contenuti che pre-datano l'era di Deng Xiaoping.

Una certa freschezza si respira all'inizio e a tratti, invece, in A E I O U – Das schnelle Alphabet der Liebe di Nicolette Krebitz, dove una strana relazione amorosa sboccia tra Anna, un'attrice non più giovane (un'ottima Sophie Rois) e Adrian, un giovane che le viene affidato per un corso di terapia del linguaggio (la rivelazione Milan Herms). Per uno strano scherzo del destino, Adrian aveva in precedenza tentato di borseggiare Anna e si scoprità che la cleptomania è il vizio del ragazzo. Il racconto dell'attrazione tra i due è condotto con levità, ma anche con consapevolezza 'politica' - si veda la scena in cui Anna mette Adrian di fronte alla videoregistrazione di un programma televisivo in cui lei s'era adirata contro due controparti maschili per un complimento sul suo bel fisico, “nonostante l'età”. E c'è una sensibilità quasi nouvelle vague nel capitolo della fuga in Costa Azzurra, dove si apre una parentesi di piena espressione del romanticismo, del sesso e del borseggio (memorabile la scena di Adrian nell'albergo di lusso). Nonostante qualche passaggio ridondante, si tratta di una delle sorprese positive di un Concorso non esaltante.

Nota certamente positiva anche per Les passagers de la nuit di Mikhaël Hers che ci porta nella Parigi degli anni Ottanta, aprendosi con la vittoria elettorale di Mitterand nel 1981. I passeggeri della notte del titolo sono l'umanità raccontata in una trasmissione radiofonica notturna condotta da Vanda (Emmanuelle Beart). Tra questi, ci sono in particolare Elisabeth (Charlotte Gainsbourg in stato di grazia), appena abbandonata dal marito, e i figli Matthias e Judith. Alla ricerca di un lavoro, Elisabeth si propone a Vanda e proprio nel suo studio conosce Talulah, una fragile giovane senza tetto (né legge) che decide di ospitare in casa. Tra quest'ultima e l'aspirante Matthias nasce una tenera attrazione che si prolunga nel corso degli anni (il film prosegue nel 1984 e 1988) e in visite successive di Talulah alla 'casa madre' dell'appartemento di Elisabeth. Punteggiato da citazioni dirette di Rohmer e Rivette che sono tanto omaggi quanto dichiarazioni d'intento stilistiche, il film di Hers è una deliziosa bolla di nostalgia cinefila che sa emozionare con finezza e squisita misura. Non sono qualità da poco e grazie anche ad una direzione d'attori impeccabile, Les passagers de la nuit rinverdisce i fasti di un cinema d'autore senza tempo.

In chiusura di giornata è arrivato dritto dal Sundance Call Jane, il debutto alla regia di lungometraggio di Phyllis Nagy, la sceneggiatrice di Carol (2015) di Todd Haynes. Ambientato nel 1968, il film racconta di Joy (Elizabeth Banks), casalinga moglie di un avvocato penalista conservatore che scopre che la sua nuova gravidanza potrebbe portarla alla morte. In un mondo di uomini che decidono per le donne, il consiglio di amministazione dell'ospedale le nega la possibilità di interrompere la gravidanza legalmente. Dopo alcuni tentativi improvvisati e fallimentari, Joy s'imbatte in un annuncio per donne incinta in difficoltà che invita a “chiamare Jane”. Joy entra così in contatto con una rete sotterranea di solidarietà femminile fondata da Virginia (Sigourney Weaver) che aiuta donne come lei e si vede sempre più coinvolta nelle loro attività. Ispirato a fatti realmente accaduti nell'area metropolitana di Chicago tra il 1968 e il 1973 (quando una Corta Suprema formata da soli uomini decretò la legittimità dell'interruzione di gravidanza), Call Jane è un film d'impegno progressista d'impianto classico e intriso di femminismo benintenzionato. Sull'altare di quest'ultimo sacrifica, però, la complessità delle questioni etiche coinvolte, persino con eccessiva leggerezza.