“Sei troppo critico”. “Criticone”. “Sai solo criticare”. “Critichi sempre, ma ti sei visto?”. “Che palle, non ti va mai bene niente”. Come avviamento alla professione non è male. In attesa del lavoro che, forse, sarà, il giovane critico paga l’inclinazione ancora in fasce, avverte i dolori sin dalla più tenera età, roba da far sollazzare quel Werther.

 

Insomma, se su uovo e gallina si può discettare, sull’”è nata prima la critica o l’autocritica?” no: volenti o nolenti, è la seconda.

 

Crescendo, il critico in fieri capirà alcune cose.

 

“Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale”, si può criticare tutto e si può recensire tutto, ma solo per la seconda, nel migliore dei casi, si viene pagati.

 

Va da sé, due indizi fanno una prova: il critico arriva sempre secondo. Dopo l’opera, si capisce, ché dopo un collega non lo confesserà mai, nemmeno a don Davide su quel ramo del lago di Como.

 

Ormai avete inteso, per un critico citazione è forma abbreviata per eccitazione: più cita, più si eccita, almeno lui.

 

Siccome Marilyn Monroe, dunque Federico Fellini.

 

Si può chiamare anche Federico, ma Fellini non lo sarà mai, non deve: se per il regista riminese farsi attributo, dunque felliniano, decretava il successo, per un critico rimanere attributo è la fine. Anzi, un mancato inizio: da “sei critico” a “sei un critico”, ne va della professione. Se è difficile, assai difficile, trovare sostentamento, almeno, si trovi il sostantivo.

 

Poi, le variazioni sul tema: un critico, qualora accosti trasposizioni dei sinottici, adattamenti biblici, figurae Christi o Krzysztof Zanussi, può occasionalmente farsi “cristico”, mai però – nemmeno alle prese con David Lynch ed epigoni, nemmeno dinnanzi a spoglie architettonicamente custodite – “criptico”, pena la metacritica più devastante: “Non si capisce un cazzo”. Non del film, ma della recensione.

 

In fondo, quella del critico è una professione pericolo: ce lo ricordano tutti, ogni giorno. Quando le cose non vanno, Il momento è critico; quando tira una brutta aria, la situazione è critica; quando si addensano difficoltà, il punto è critico.

 

Da qualche anno, sì, la situazione è diventata più critica: critici in pensione dorata ma ancora attivissimi? Certo. Spazi critici nei quotidiani sempre più angusti? Ovvio. Pagherò come unica forma di pagamento? Purtroppo. Ricco di famiglia e/o altrove munificamente munito come unico accesso alla professione? Già.

 

Ma la minaccia principale, il nemico pubblico numero uno, per dirla con Vincent Cassel, o l’ordigno fine di mondo, con il dottor Stranamore, è un altro: l’influencer.

 

“Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi”, ovvero “Sono tanti, arroganti coi più deboli zerbini coi potenti, sono replicanti”, e ci stanno rimpiazzando: le major – una, in particolare – li bramano e li pagano, anzi, li strapagano. Non sanno di che parlano, ma sanno di che postano, twittano, influenzano. Beati loro.

 

Soccomberemo? Forse. Ma, con il Che o Brecht o chi per loro, “chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”. Dobbiamo combatterli, e sul loro campo, sui loro social. Sul mio profilo ho fissato un tweet, hashtag #SpotTheDifference: “Influencer: persona pagata per dire che una cosa è bella

Critico: persona pagata per dire se una cosa è bella”.

 

A dirla tutta, di differenza ce n’è un’altra: loro li pagano sempre, noi comunque. E se un critico non è pagato è un critico o è solo critico? La questione è corrente, il conto pure.

 

Però, senza nulla togliere agli amici influencer, non sono loro la minaccia più gravosa, più incombente, e mortificante per la critica oggi. Quella che, nel migliore dei casi, ancora tiene fede alla propria radice e distingue il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal brutto e dal meno bello, il buono dal cattivo e dal meno buono, il film dalla schifezza.

 

No, la nostra nemesi è chi va al cinema, o s’accomoda in salotto o rimane a letto, come al ristorante, e poi commenta: prima il film e poi la recensione, o viceversa.

 

A imperare è il modello TripAdvisor, e se ancora non siamo entrati in coma, siamo già Coma Cose (Mancarsi, il titolo ineffabile), con una impercettibile ma fondamentale variazione: “Ci hanno dato tutto, ci hanno tolto tutto. Poi vi hanno detto, ‘Lascia un commento’”.

 

Tot capita tot commenta. Sotto a una mia recensione per cinematografo.it, durante l’appena terminata Mostra del Cinema di Venezia, ne hanno lasciato uno. Non vi dirò il film, ma il peccatore, quello sì, ve lo leggo:

 

“Vedo con piacere che il film ti è piaciuto. Io sono un esercente cinematografico, da più di 30 anni, e penso che dopo una recensione del genere si possa fare a meno di programmare il film, lo hai massacrato, noi coi film ci viviamo, che siano belli oppure brutti, tu puoi parlare di film, è il tuo lavoro, però devi pensare che ogni persona vede il film a modo suo, perciò se una cosa non ti è piaciuta, e sinceramente leggendo le tue recensioni vedo che ti piace poca roba, cerca di essere un pochino più leggerò nei giudizi, ripeto ogni persona vede il film a modo suo e se una cosa non piace a te non è detto che sia una boiata”.

 

Noi coi film ci viviamo, scrive, e noi, noi critici, di che sopravviviamo? Che poi, lo sappiamo, anche la Corazzata Cotiomkin era una boiata, pardon, cagata pazzesca. 92 minuti di applausi.