Se gli americani hanno avuto (Alfred) Kinsey, e tutti noi l’omonimo film (2004) di Bill Condon con Liam Neeson, l’educazione contro pregiudizi, ignoranze e ipocrisie dalla cintola in giù – e in su – in Polonia ha avuto un volto femminile: Michalina Wislocka, autrice del saggio bestseller The Art of Loving / A Practical Guide to Marital Bliss.

In Concorso al 42. Polish Film Festival di Gdynia, il biopic che ne dà contezza è The Art of Loving. The Story of Michalina Wislocka, scritto da Krzysztof Rak e diretto da Maria Sadowska, già cantante di fama, campione di incassi del 2017 in Polonia con oltre 1,7 milioni di biglietti staccati.

Prima donna sessuologa del suo Paese, la Wislocka – intensamente interpretata da Magdalena Boczarska, che regala anche bei nudi – viene inquadrata tra vita privata - il triangolo con amica e marito (lui è Piotr Adamczyk, e un po’ viene da ridere perché fu Papa Woytjla in Karol e qui fornica alla grande) il fallimento del matrimonio, la divisione dei “figli”, l’amore per un uomo sposato – e vita pubblica, ovvero la battaglia matta e disperatissima per far pubblicare il libro, appunto, una guida alla vita sessuale destinato a rivoluzionare usi e, ehm, consumi della società polacca. Il saggio venne editato nel 1976 con il titolo Sztuka kochania (The Art of Loving), non prima di venire osteggiato dal partito comunista, messo all’indice dalla Chiesa, vilipeso dalla censura.

Nel cast anche Justyna Wasilewska, Eryk Lubos, Borys Szyc, Arkadiusz Jakubik e Wojciech Mecwaldowski, il film non erige la Wislocka, già affiancata a Virginia Johnson e William Masters per la sua “crociata” educativa, a eroina dura e pura, ovvero felicemente e stolidamente di successo, al contrario, i suoi fallimenti e, soprattutto, la sua solitudine non vengono né elisi né elusi.

Pioniera indefessa, si sacrificò per quella causa o, meglio, quella causa non contribuì a renderle la vita facile o felice: fu solo con il suo Capitano (Lubos) che sesso e amore le vennero di pari passo, ma non era destinata a durare.

La sua missione viene raccontata in tre epoche, l’immediato dopoguerra – lei e il marito vennero sottratti ai campi dall’amica-amante, e la scena è di totale indifferenza per la sorte infausta dei rimanenti prigionieri: i tre se ne vanno a braccetto e sorridenti – poi gli anni ’50 della Polonia stalinista e quindi i ’70, quando le sue pagine scoprirono le coltri retrive e sessiste del Paese.

Non è un film interamente riuscito, The Art of Loving, è narrativamente intorcinato, inutilmente prolisso e sovente superficiale, ma la bravura degli interpreti, la “bontà” della missione e, al contempo, una certa dolente, cinica schiettezza – l’orgasmo non è la panacea a tutti i mali – ne fanno un prodotto gradevole, esportabile (anche da noi) e non interamente addomesticato. Perché tra una diagnosi e un amplesso, un successo per conto terzi e un fallimento esistenziale, rimane aperta una questione: l’arte d’amare e la scienza del sesso sono sinonimi o contrari?