Con Dolor y gloria Pedro Almodóvar realizza una potente riflessione sul processo creativo e sulla sua vita. Con Antonio Banderas suo alter ego.

“Sono orgogliosissimo” ci dice il regista spagnolo, a proposito del suo 21mo film in concorso al Festival di Cannes, in uscita il 17 maggio per Warner Bros. Dolor y gloria: c’è più dolore che gloria in questa opera magnifica, diversa da quelle a cui ci ha abituato il regista di Tutto su mia madre, Parla con lei e Volver. Che pur raccontando un dramma, e con la potenza di cui è maestro, lo fa con uno stile diverso. Sobrio, quasi asciutto. Così ci introduce e poi scaraventa nella vita di Salvador (Antonio Banderas) che assomiglia a lui come una goccia d’acqua. Incontrare Almodóvar è sempre un’esperienza immersiva. Quando incomincia a raccontare, ti lascia entrare nel suo mondo di tinte vivaci, desideri perduti, rimpianti rimossi, emozioni soffocate: non ci sono posti in cui rifugiarsi o consolarsi. La generosità con cui si mette a disposizione esige un osservatore attento, e stavolta ancora di più, perché Dolor y gloria parla di sé, della sua vita, delle canzoni che ascoltava da bambino, del primo amore. E di quello di cui non può fare a meno, il cinema. “È la vera dipendenza di Salvador, dice, e quindi anche la mia”.

Dolor y gloria è un’opera schietta e priva di compiacimento. Personale e universale. C’è molto di Almodóvar in questo film.

È vero. Mi avevano operato alla schiena e soffrivo tanto da non riuscire a fare nulla. Come il protagonista, che è un regista, avevo paura di non essere più in grado di girare. Quando, finalmente, ho ripreso a scrivere, mi è sembrato un soggetto plumbeo, quasi oppressivo. È stato un percorso terapeutico.

L’intuizione come le è venuta?

Era estate e stavo dentro la piscina immobile, l’unico modo che conosco per rilassare completamente i muscoli. All’improvviso ho pensato: ecco una buona immagine per iniziare un film. La solitudine e l’acqua mi hanno riportato a un momento della mia infanzia. Mia madre e le sue vicine che lavano i panni nel fiume, io bambino, felice, che gioco con gli altri. Ho capito allora che avrei scritto una storia sul presente ma legata al mio passato.  E ho deciso di ambientarla in tre periodi diversi: l’infanzia negli anni ‘60, l’età adulta negli anni ‘80 a Madrid dove Salvador si è formato durante il movimento di rinascita culturale madrilena, e infine nel presente, con Salvador depresso. Allo stesso tempo cercavo il modo di salvare il protagonista. Perché drogarsi a 60 anni è molto pericoloso e lui lo sa. Io non mi sono mai avvicinato all’eroina, conosco però tante persone che lo hanno fatto e mentre proseguivo nella stesura della sceneggiatura ero sempre più preoccupato per lui: aiutarlo significava salvare me. Di nuovo, la soluzione mi è arrivata da un ricordo, la pulsione del primo desiderio, che in Dolor y gloria coincide quando Mercedes (Nora Navas) dà a Salvador un invito per una mostra. Un acquerello con un bambino seduto in un cortile interno imbiancato, mentre legge un libro su un pavimento di piastrelle. Il ragazzino è lui, a nove anni.  Quel dipinto gli scatena molte emozioni ma soprattutto gli fa tornare la passione di raccontare, perché non può andare avanti senza il cinema. È questa la vera dipendenza, ed è anche la mia.

Il protagonista è un uomo stanco, che a malapena galleggia. Ma poi ritrova la forza, la speranza. Antonio Banderas non è mai stato tanto bravo.

Credo che sia la sua migliore interpretazione di sempre. Quando gli ho mandato il copione gli è piaciuto molto, ma avevo bisogno che abbandonasse il suo stile, il modo di recitare di Antonio Banderas: enfatico, pieno di intensità, appassionato. Ha capito e mi ha detto: “Pedro se è quello che vuoi mi metto nelle tue mani”. E lo ha fatto. Alcune persone, che hanno visto Dolor y gloria, mi hanno detto che a un certo punto si dimenticano di Antonio e vedono me al suo posto. Ricordo che durante le prove gli ho suggerito che, se si fosse trovato in difficoltà, avrebbe potuto imitarmi in qualche sequenza. Antonio ha risposto di no, che non era necessario. E aveva ragione, il suo personaggio non ero io, ma era lui dentro di me. Quando aspetta Federico (Leonardo Sbaraglia) davanti alla porta e non sa come accoglierlo, c’è tanto di suo. Gesti piccoli ma profondi. Lo sguardo che ha quando è solo o parla con Federico o la madre è impressionante.

La rappresentazione della madre è differente rispetto agli altri suoi film.

Volevo una madre diversa, siamo nel dopoguerra e Penelope (Cruz) è una lottatrice. Col passare del tempo, quando diventa anziana (Julieta Serrano), si rivela molto più dura. Il mio cinema è pieno di madri, di solito più divertenti o incantate dalla maternità. Volevo esplorare l’altra faccia, quella meno amabile e forse anche più realistica. Ad esempio quando Jacinta dice a Salvador “non sei stato un buon figlio” o la scena seguente, sulla terrazza, lo rimprovera perché se n’è andato a Madrid e non l’ha mai portata con sé. A volte i genitori sono crudeli senza esserne consapevoli.

Più che il melodramma, usa un linguaggio nuovo, più asciutto, quasi sobrio. Anche se i colori sono quelli del mondo almodovariano. Come ha trovato il giusto equilibrio?

Ho cambiato deliberatamente il modo di narrare. Mi attirava un tono contenuto, più austero che barocco. Una novità per me. Però non voleva rinunciare ai colori, che dal punto di vista drammatico hanno un significato. Prima di arrivare all’isolamento, Salvador è stato un uomo allegro, ha vissuto esplosivamente e la casa corrisponde al suo passato, rispecchia il suo gusto.

La scena del sudario: il suo rapporto con la morte.

Ogni volta che scrivevo e riscrivevo la sequenza in cui la madre Jacinta dice a Salvador “se vedi che mi legano i piedi (di solito si fa per evitare ai piedi di aprirsi lateralmente, ndr), scioglili e dì che te l’ho chiesto io. Nel posto in cui andrò, voglio entrarci leggera”, finivo per piangere. È un ricordo di mia sorella, mia madre lo disse a lei. Viaggiava sempre con il sudario, il lenzuolo funerario, nella valigia. Quando l’ho saputo mi sono emozionato moltissimo. Non ho un buon rapporto con la morte e questa tradizione “manchega”, della mia terra di origine, mi sembra liberatoria. Un rapporto bellissimo con le persone che ci lasciano, ma non vanno mai via per davvero.