Il testo integrale dell'articolo sul numero di marzo della Rivista del Cinematografo

In mezzo a catapecchie e caprette, un reporter intervista dei contadini sdentati. Stati Uniti, 19 ottobre 2007: George W. Bush si prepara a un intervento col gotha dell'economia. Mentre il reporter presenta alle telecamere la sorella come la quarta prostituta più famosa del Kazakistan, a Chicago un folle colpisce a morte il 43° Presidente degli Stati Uniti. Schizofrenia e associazioni indebite? Tutt'altro. Nelle sale coi titoli di Borat e Death of a President, risponde in codice al nome di docmock: realtà mascherata da fiction, per superare i limiti del documentario. Che sia uno Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan o il fantapolitico assassinio dell'uomo più potente del pianeta, l'operazione è sempre la stessa. Quella ben colta dalla giuria del Festival di Toronto, che ha assegnato il Premio della Critica a Death of a President "per l'audacia con cui deforma la realtà, al fine di raccontare una verità più grande".

BANG BANG BUSH
Eloquente premessa di Death of a President è la locandina con cui viene lanciato: una lapide col nome di George W. Bush. La data di morte è il 19 ottobre 2007: giorno in cui nella ricostruzione di Range un cecchino elimina il presidente. Attraverso filmati di repertorio e interviste allo staff di Bush, la storia si snoda come una caccia al killer. Il paese cerca vendetta e la polizia gliela dà in tempi record. I sospetti cadono su un immigrato siriano, dipendente di un'impresa di pulizie. Su di lui l'ombra di Al Qaeda, quanto basta perché scatti la la guerra alla Siria è a un passo, l'uomo diventa l'incarnazione del male. Per lui viene decretata la condanna a morte. Poco importa che di lì a pochi mesi spunti fuori il vero colpevole. Che non è arabo, non è musulmano e rovescia completamente senso e prospettiva del film.

DOC: VIVO, MORTO O X?
Il documentario non è morto. A decretarne il parziale superamento è però stato proprio il suo ultimo alfiere: Michael Moore. Fahrenheit 9/11 ha incarnato l'esasperazione dell'attacco alla realtà e prodotto l'effetto boomerang che tanti auspicavano. Fallimento della crociata anti-Bush e rappresentazione della scomoda verità hanno ucciso le speranze dei sostenitori e fatto gridare gli altri alla saturazione. Copertura mediatica 24 ore su 24, bombardamento di news, reportage dal fronte della disperazione globale: l'unica via rimasta per non abbandonare la denuncia è camuffarla da fiction. Il risultato è garantito. Parola di Orson Welles, a cui nel 1938 era bastato leggere alla radio un brano della Guerra dei mondi per scatenare il panico dello sbarco alieno in tutto il paese.

A QUALCUNO PIACE MOCK
"Shocking and disgusting" tuona il Partito Repubblicano del Texas. "Che si tragga profitto da questo scenario mi fa orrore" echeggia la senatrice democratica Hillary Clinton, mentre i circuiti cinematografici Regal e Cinemark rifiutano Death of a President e CNN e NPR bloccano la messa in onda del trailer: il presidente degli Usa vende cara la pelle. E sorte avversa attende anche Borat, ebreo praticante nel mirino dell'Anti Defamation League, querelato dall'amata Pamela Anderson e colpito dagli strali del natale Kazakistan. Povero Borat, manco fosse uno zingaro da mettere sotto con l'hummer o un ebreo da cui farsi inseguire stile San Firmin.

LASCIA (IL SEGNO) O RADDOPPIA?
Che sia una liberatoria sbattuta in faccia al malcapitato un secondo prima di accendere la camera oppure una miscela impazzita ad arte di materiale di repertorio e simulacro digitale, il risultato non cambia: squassare la finzione, infettarla di realtà e occultare l'antidoto. Le querele si mettono in coda (Borat), nelle recensioni l'imperativo morale diviene categorico (Death of a President), ma l'azzardo è compiuto. Rimane un unico pericolo: il successo. E la conseguente normalizzazione. Rupert Murdoch incassa il raddoppio di Sacha Baron Cohen. Sarà sequel o de profundis?