C’è un capolavoro del Novecento che, più di altri, produce immagini a mai finire, sfogliando le sue pagine si sente lo sciabordio delle onde e si toccano purissime visioni, ci si immerge in una lingua complessa e fluente e si vive dentro una serie di scene agite e sognate: si tratta di Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo, opera quasi unica di un grandissimo scrittore che vi si dedicò per vent’anni con ritmo ossessivo e passione-pulsione totalizzante.

Chiudete gli occhi e pensate a Moby Dick, e poi all’Ulisse di Joyce, e poi ancora all’Odissea, quindi tenete tutto insieme e tenete insieme anche aggettivi che vanno da storico a gotico, da epico a totemico, da avventuroso a marino, da disperante a sensuale.

 

Per qualche strana ragione, anziché venirne fuori un pasticcio, l’alchimia sarà perfetta. Infine, prendete un marinaio e una “femminota”, fate loro traversare lo Stretto di Messina e mettete a tacere tutto il resto: niente tacerà, le “fere”, creature marine sfuggenti e terribili, continueranno a urlare senza che a voi sia più dato sapere se quel rumore è sogno o realtà.

Ecco gli ingredienti: c’è un marinaio, Andrea detto ‘Ndria che di cognome fa Cambria, al quale tocca di compiere la traversata. C’è un tempo in cui questa traversata avviene, e sono cinque giorni: dal 4 all’8 ottobre 1943. C’è una committenza tutta particolare che esorta al viaggio, una commissione di donne ovvero le “femminote”, contrabbandiere di sale, e c’è una ragione: trovare un varco per arrivare in Sicilia dopo che gli angloamericani hanno affondato tutti i “ferribò”, i ferryboat. Ci sono l’epica, il mito, una narrazione postmoderna, c’è il viaggio dell’eroe, c’è la sensualità, c’è la traversata di ‘Ndrja con Ciccina Circé, la sensuale femminota mezza maga, che lo accompagna e lo guida. C’è il fantastico: il mondo delle fere, creature vive e morte, sulla scena e nel ricordo.

La lingua letteraria del romanzo sembra già tradursi in quella filmica, il materiale visivo straborda. Eccolo: un potente viaggio di mare, un’epica senza lirica, un’epica cupa e ridente, feroce e barocca, dove nulla riesce troppo a lungo a mantenere una natura ammaliante. Un’epica gaia e autodistruttiva, piena di scene madri e di dettagli imperdibile.

 

Allora si avrebbe voglia di rivederlo mille volte per passare dal continente all’isola e quindi, di fatto, unire l’Italia; un film per raccontare il fascismo attraverso un busto di Mussolini dentro il quale una femminota fa la pipì, per guardare alla storia attraverso l’epopea.

Horcynus Orca è, come Morgana, come Orione, come Scilla, come Cariddi, come Cola Pesce, un mito dello Stretto, come loro è monumentale e inafferrabile insieme. Che sfida, che gioia per gli occhi, per il cervello e per il cuore.