Room

3.5/5
Reclusione, venuta al mondo e alfabetizzazione relazionale: il thriller di Lenny Abrahamson, ad alto voltaggio emotivo

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CANADA 2015
Ma' vive per il suo bambino di soli 5 anni. Gioca con lui, gli racconta storie, cerca tutti i modi per farlo divertire. Nonostante ciò, è difficile nascondere che vivono in una "stanza" di 9 metri quadrati e senza finestre, solo un lucernario da cui vedere una porzione di cielo. Jack è un bimbo curioso e Ma' è consapevole che il figlio ha raggiunto l'età giusta per aiutarla a mettere in atto il suo piano di fuga per raggiungere insieme il mondo fuori.
SCHEDA FILM

Regia: Leonard Abrahamson

Attori: Brie Larson - Ma', Jacob Tremblay - Jack, Joan Allen - Nancy, Sean Bridgers - Vecchio Nick, Tom McCamus - Leo, William H. Macy - Robert, Matt Gordon - Doug, Amanda Brugel - Agente Parker, Joe Pingue - Agente Grabowski, Cas Anvar - Dott. Mittal

Soggetto: Emma Donoghue - romanzo

Sceneggiatura: Emma Donoghue

Fotografia: Danny Cohen

Musiche: Stephen Rennicks

Montaggio: Nathan Nugent

Scenografia: Ethan Tobman

Arredamento: Mary Kirkland

Costumi: Lee Carlson

Effetti: Ed Bruce, Screen Scene

Durata: 118

Colore: C

Genere: DRAMMATICO

Specifiche tecniche: (1:2.35)

Tratto da: romanzo "Stanza, letto, armadio, specchio" di Emma Donoghue (ed. Mondadori)

Produzione: ELEMENT PICTURES, NO TRACE CAMPING, IN ASSOCIAZIONE CON DUPERELE FILMS

Distribuzione: UNIVERSAL PICTURES INTERNATIONAL ITALY (2016)

Data uscita: 2016-03-03

TRAILER
NOTE
- PRESENTATO ALLA X EDIZIONE DELLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA (2015).

- GOLDEN GLOBE 2016 A BRIE LARSON COME MIGLIOR ATTRICE. LE ALTRE CANDIDATURE ERANO: MIGLIOR FILM DRAMMATICO E MIGLIOR SCENEGGIATURA.

- OSCAR 2016 A BRIE LARSON COME MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA. LE ALTRE CANDIDATURE ERANO: MIGLIOR FILM, REGIA E SCENEGGIATURA NON ORIGINALE.
CRITICA
"(...) un film che (...) si farà molto ricordare dallo spettatore per la capacità di sorprendere le sue aspettative e trasformare quello che ha tra le mani (meglio: davanti agli occhi) con una sorprendente abilità. (...) è evidente la volontà del regista di giocare con le aspettative del pubblico, di cercare un cinema che soprattutto non possa essere accusato di essere condiscendente con quello che si aspetta o si immagina lo spettatore. Il film è tratto dal romanzo di Emma Donoghue (...) ed è stata proprio l'autrice a scrivere da sola la sceneggiatura: tra i meriti del suo lavoro, sulla pagina come sullo schermo, c'è quello di aver saputo evitare il facile ricatto emotivo della cronaca. Ci sono stati molti casi di sequestri che possono far pensare a questa storia, ma il film (e il libro) fanno il possibile per evitare richiami o similitudini e la svolta-sorpresa è uno dei meccanismi che usa. Perché al di là della bravura del regista e dei suoi attori (davvero notevole) è proprio il meccanismo del racconto la qualità che fa la differenza, quella che passa tra la «ricostruzione» di un fatto di cronaca e l'«invenzione» di un cinema capace ancora di sorprendere ed emozionare." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 29 febbraio 2016)

"Se non credete che un film possa farci guardare il cielo come se lo vedessimo per la prima volta, date un'occhiata a 'Room', una delle scoperte più emozionanti della stagione (...) un film estremo. Ma soprattutto è la prova che per fare grande cinema non sempre servono grandi mezzi o grandi spazi (...). Tratto dal bel romanzo dell'irlandese Emma Donoghue (...), anche attenta sceneggiatrice del film, 'Room' reinventa in chiave tra il clinico e il lirico atroci fatti di cronaca come quelli di Josef Fritzl e Natascha Kampusch. Ma si ribalta a metà percorso passando dalla claustrofobia più angosciosa a un ritorno alla 'normalità' non meno impervio per la madre che per il figlio. Perché per il piccolo Jack quell'inferno di pochi metri quadri è a suo modo un piccolo Eden in cui vive in simbiosi con la madre, anche se per la solitudine considera come esseri viventi tutti gli oggetti di casa. E perché la loro parabola, qui sta la vera grandezza di 'Room', diventa una metafora della fine dell'infanzia, di ogni infanzia. Dei danni che può lasciarsi dietro e dei compromessi a cui costringe, che spesso durano un'intera esistenza. Come dice la Donoghue, «in fondo la vita di ogni giorno può somigliare alla prigionia. La cattività non è che una versione estrema della normalità». Di qui l'emozione così forte provocata da questo film che scava nel rapporto più intimo e fondante che ci sia, quello tra un figlio e una madre, per poi esplorare a ritroso il riflesso della loro vicenda sul resto della famiglia. Con una profondità, una giustezza di accenti, una capacità di restare sempre in sincrono con i sentimenti di tutti i personaggi, che lascia davvero stupiti." (Fabio Ferzetti, 'Il Messagegro', 29 febbraio 2016)

"(...) sono le scelte di regia il pregio del film. Senza introduzioni o spiegazioni dapprima veniamo interamente calati nell'universo claustrofobico, e poi altrettanto repentinamente avviene lo scioglimento che però prelude alla seconda parte in cui madre e figlio devono fare i conti con la ripresa di una difficile normalità." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 3 marzo 2016)

"(...) nei piccoli movimenti di macchina di Abrahamson, nelle sue inquadrature ravvicinate, a tratti spiazzanti, quella «stanza» sembra effettivamente magica; si allarga e si restringe come una fisarmonica, piena di angoli, sorprese, significati. Per Jack la stanza è tutto, l'unica realtà che conosce, e quindi che esiste. (...) Room trae la forza delle sue immagini dal microcosmo emotivo viscerale, intensissimo, del rapporto tra madre e figlio e nel magico equilibrio di lenti distorte da cui dipende la loro sopravvivenza nella stanza. Lo spazio chiuso, claustrofobico, gli si addice. Quando però, dopo quella prima parte, che si risolve in un crescendo drammatico tesissimo e molto bello, Ma e Jack si ritrovano nel mondo esterno, il film si appiattisce, si banalizza in modo quasi televisivo. La sopravvivenza fisica non è più in discussione e sorgono naturalmente altre domande. Di fronte ad esse, Ma rimane purtroppo un personaggio opaco, una cifra che né il regista né la sceneggiatrice sembrano interessati a sciogliere se non attraverso psicologismi non molto originali e la classica crisi di nervi. (...) Tremblay, che parla poco, ma è abilissimo a comunicare con gli occhi e la bocca stati d'animo obliqui assume un'aria un po' guardinga. Scale, corridoi, mobili, persone diverse gli richiedono, anche nello spazio del fotogramma, una prospettiva diversa. Alla fine, però forse (sarà il messaggio del film?) questo mondo coi più grande, diverso e più comodo si può decifrare secondo i codici e i valori non preconcetti della stanza. Dove lui chiede di tornare in visita e rimane l'anima di 'Room'." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 3 marzo 2016)

"Piacerà a molti spettatori che se non era per l'Oscar (a Brie Larson, ma le nomination erano quattro) non avrebbero fatto caso all'uscita di 'Room' (...). La trama (...) claustrofobica all'ennesima potenza è di quelle che respingono più che attrarre lo spettatore domenicale (...). Ora però l'Oscar dovrebbe fornire una bella spinta. Per il film, per la Brie e per Abrahmson. Che alla seconda regia si rivela un direttore da tenere più che d'occhio, da seguire in ogni opera seguente. Qui s'era assunto un compito arduissimo. Assai più nella seconda parte che nella prima. L'orrore della segregazione era relativamente facile da rendere sullo schermo. Basta dribblare i momenti di noia, basta stare addosso ai personaggi nei rituali delle loro giornate sempre uguali. L'orrore del mondo esterno quello si era duro da delineare, senza cadere nell'ovvio, nella filippica contro l'aggressione di stampa e tv (...) nella polemica contro la famiglia borghese, non molto più raccomandabile di quella coatta. Bene, per non cadere in quell'infinità di trappole (dal melodramma alla sociologia a scartamento ridotto) Abrahamson ha scelto la strada giusta (forse l'unica se voleva azzeccare il film). Le due ore di racconto sono tutte passate dalla parte di Jack viste dai suoi occhi, da ignari a stupiti a sofferenti (...). E a questo punto è da rilevare che l'Oscar 2016 era il caso di darlo al piccolo Jacob Tremblay, portentoso, commovente, sempre plausibile, bravo a duettare con la Larson come manco un divo sperimentato riuscirerebbe." (Giorgio Carbone, 'Libero', 3 marzo 2016)

"(...) uno dei film più spiazzanti degli ultimi anni. (...) Un dramma psicologico che coinvolgerà chi è seduto in platea, catturato dalla sorte apparentemente segnata dei due protagonisti. (...) Brie Larson, perfetta e meritato premio Oscar (...). Un dramma che si trasforma in thriller per poi sprofondare ancora nei toni drammatici, senza mai perdere il filo del discorso, anzi affrontando tematiche sempre diverse (come la fine dell'infanzia e dell'adolescenza), elaborando il trauma di mamma e figlio, ancorati a quella stanza che, in un certo senso, rappresenta la loro coperta di Linus. Un film da non perdere." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 3 marzo 2016)

"Metà film nel perimetro del bunker di un orco, preciso, opprimente, geometrico, poggiato su due grandi interpretazioni, a partire dall'infante Tremblay (meritato Oscar alla Larson). (...) Con uno stratagemma di fuga, avvincente e credibile, incomincia l'altra metà, interessante ricostruzione del ritorno a casa, funzionale alla (ri)scoperta del linguaggio della realtà, lo spazio, il cielo, le case, gli animali, ma indebolita dall'inserimento nella vita normale, troppo rapido e poco traumatico, di madre e figlio." (Silvio Danese, 'Nazione-Carlino-Giorno', 4 marzo 2016)

"Un film, certo, da vedere anche per l'Oscar recapitato alla sua protagonista: 'Room', però, non merita secondo noi il coro delle lodi che l'hanno accompagnato dal festival di Roma sino alla ribalta della Notte delle stelle. O meglio il giudizio sul dramma psicologico (...) andrebbe secondo noi diviso - fenomeno assai raro - esattamente a metà: il primo corrispondente al maxi prologo inquietante al massimo, virtuosistico nelle riprese, stretto sino all'asfissia sulla mamma e il figlio protagonisti e il secondo calibrato sullo sviluppo degli eventi successivi indelebilmente segnati dalle ferite precedenti. La storia (purtroppo) vera richiede, infatti, al regista Abrahamson una prolungata e ardua tessitura scenografica che permette alla pressoché inedita Larson e al piccolo Tremblay di giocare a un atroce rimpiattino con le suppellettili, i giocattoli, gli alimenti, le luci e i rumori che determinano lo spazio da loro stessi denominato Stanza: al di là dei dubbi, dei disagi e dell'ansia che lo stand-by narrativo e psicologico instilla negli spettatori, si fa apprezzare l'assenza del ricorso ai toni alti che, invece, sembrano risuonare ovattati e minacciosi in sottofondo. Senza essere incalzati da troppe sottigliezze intellettuali, si può dire che emerga scabra e limpida la metafora della minima distanza che può intercorrere tra la vita normale e il mondo reale e una loro proiezione 'mostruosa'. E non c'è nulla di male nel considerare l'astutissima quanto riuscitissima acme della scena del furgone degna di un grande film di suspense. Dispiace molto, quindi, che il secondo blocco, pur restando accese le immedesimazioni attoriali, abbandoni il lavoro di cesello sui dettagli, la misura del valore degli sguardi e l'inaccettabile fusione coatta del criminale col fiabesco per concedersi via via sempre più platealmente a effetti più melensi, alle reprimende scontate sul cannibalismo dei media e ai semplicistici reportage sul calvario dei reduci da gravi traumi psicologici." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 10 marzo 2016)