Anche un inno alla libertà può essere manipolato. In un mondo di oppressioni e guerre, il cinema può trasmettere la verità o romanzare la Storia per il proprio tornaconto. Non è un caso che i registi di 12 anni schiavo e The Birth of a Nation siano persone di colore: sono gli unici che possono rendere onore alla memoria dei propri antenati, ma allo stesso tempo rischiano di cadere nella trappola di una visione parziale delle cose. Così come oggi molti sostengono che non tutti gli immigrati siano un pericolo, forse all’epoca non tutti i bianchi erano demoni. In ogni caso non lo sapremo mai, e le uniche certezze vivono nell’anima di un popolo oppresso e seviziato.

C’è tanta carne al fuoco in questo nuovo Birth of a Nation, forse troppa. La voglia di girare il film definitivo sullo schiavismo è palpabile, e si entra in un mondo ricco di simbolismi e profezie. Nat Turner è l’uomo, è il predicatore, è il profeta, ma soprattutto è uno schiavo, nato e cresciuto in una piantagione di cotone. Gli hanno insegnato a leggere, e allora ha imparato la Parola del Signore. I suoi padroni sembrano persone perbene, per gli standard ottocenteschi dei sudisti. Ma la violenza regna sovrana e sconvolgerà la sua vita. Dopo essere stato un perfetto uomo di Dio, Nate vestirà in seguito i panni del carnefice, con la Bibbia sotto al braccio. I versetti che professavano l’amore e il perdono si trasformano in uno strumento di vendetta, e la nostra triste attualità torna a galla anche in un ritratto di altri tempi. Sul grande schermo si manifesta lo spauracchio di una ruota che gira, di una Storia che nei secoli rimane immutabile.

Il regista Nate Parker, anche attore protagonista, sceglie un titolo di grande effetto, che richiama il capolavoro di David W. Griffith. Questa volta il Klu Klux Klan non è menzionato, e dalla parte degli aguzzini ci sono le persone comuni, costrette dal giogo di una società non uguale per tutti. Alcuni ci credono, altri no, ma poco importa: gli schiavi sono trattati peggio delle bestie e il sangue scorre crudele. Gli stupri si alternano alle impiccagioni e un certo compiaciuto gusto per il colore rosso spadroneggia. Serve uno stomaco forte per non chiudere gli occhi quando a un uomo vengono rotti i denti con un chiodo. Serve uno sguardo attento per non essere trascinati dall’enfasi e andare oltre l’epicità di facciata.

Si tratta di una classica storia americana, che parte da una situazione di relativa calma per poi esplodere. Si sentono gli echi di Mel Gibson e del suo William Wallace, e anche Scorsese fa la sua parte, con intere sequenze che richiamano Gangs of New York. La retorica patriottica si risolve in un tripudio di estetismi talvolta gratuiti, e nell’ultima inquadratura, la poetica assurge a propaganda.

The Birth of a Nation cavalca la nuova ondata di tensioni razziali negli USA. Si propone come soluzione, ma rischia di alimentare l’odio con un messaggio spasmodicamente estremista. Al contrario di 12 anni schiavo, si perde l’oggettività del racconto, e il regista sale sul palco per tenere il suo comizio. Gli abusi sono indiscutibili, l’orrore è condiviso e la condanna per la schiavitù è unanime. Ma quando l’ego supera le nobili intenzioni, si alza solo un gran polverone. Un film da vedere con il cuore aperto e il cervello acceso.