Ha tutti i crismi del capolavoro civile il nuovo film di Clint Eastwood, Sully, fuori concorso al 34° Torino Film Festival e sicuro contender, a partire da Tom Hanks, ai prossimi Academy Awards.

Il 35esimo lungometraggio di Mr. Eastwood racconta una vicenda vera, già passata alla storia come Miracolo sull’Hudson: l’ammaraggio del volo U.S. Airways 1549 sul gelido fiume Hudson a New York, in seguito al grippaggio di entrambi i motori causato dall’impatto con uno stormo di oche canadesi, il 15 gennaio 2009.

Il comandante Chesley Sullenberger (Tom Hanks) alla cloche dell’Airbus A320, insieme al copilota Jeff Skiles (Aaron Eckhart), fece l’impresa: salvare tutte le 155 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, a bordo. Dimenticate il comandante Francesco Schettino della Costa Concordia, Sully fu l’ultimo ad abbandonare il velivolo, dopo aver perlustrato la carlinga due volte per sincerarsi che nessuno fosse rimasto indietro: un eroe, celebrato a furor di popolo com’è giusto che sia. Oltre 50mila i messaggi di stima e tributo ricevuti.

Eppure, Eastwood non ha subito deciso di farne un film. Sully, questo il diminutivo di Sullenberger, dimostrò grande calma nell’emergenza, la sua decisione di abortire il rientro all’aeroporto internazionale La Guardia si rivelò giusta, la scelta dell’opzione ammaraggio pure, e la manovra fu effettuata con grande perizia: a non renderlo un robot, per giunta, sarebbero arrivati gli incubi, l’insonnia, lo stress post-traumatico.

Che cosa cercava Clint? Semplice, la conditio sine qua non per un film: il conflitto. “Il vero conflitto, per me, è arrivato dopo, quando – ha dichiarato il regista - le autorità per la sicurezza dei trasporti l’hanno interrogato sulle decisioni prese, sebbene Sully avesse salvato così tante vite”. Sono state le audizioni del National Transportation Safety Board sul forzato ammaraggio a far decollare Sully, peraltro su una rotta non dissimile da quella scelta da Robert Zemeckis per Flight, interpretato da Denzel Washington.

Per comprensibili motivi drammaturgici e patetici – la costruzione a incastro, tra flashback e flashforward è uno dei sicuri punti di forza – Eastwood ha accorciato la distanza temporale tra il salvataggio e le audizioni, ma non ha inventato nulla:  sull’eroe richiesto del perché e del percome delle sue gesta Clint ha ravvisato lo spettro del politically correct e non ha avuto alcuna pietà, regalando a Sully e a noi spettatori un grande film, capace di elogiare il tutti per uno nell’uno per tutti, la collettività nell’individualità eccelsa, l’unione solidale nella forza del singolo.

Non mancano, anzi, battute ironiche (il cocktail inventato per Sully, due dita di Grey Goose e uno spruzzo d’acqua, non si batte!), dialoghi fulminanti (non difettano nememno nelle sequenze da court drama vero e proprio), affidati a un cast in stato di grazia - oltre a Hanks e Eckhart, Laura Linney, Sam Huntington, Anan Gunn, Autumn Reser e via scorrendo – né l’elogio del senso di responsabilità, del fare bene il proprio lavoro, condizione necessaria e sufficiente, in fondo, perché si possa essere eroi. Ognuno di noi, ogni giorno.

Anarchico di destra, libertario collettivista, Clint fa di Sully un grimaldello anti-sistema, colui che rivendica il fattore umano contro gli algoritmi, le simulazioni al computer, la cieca efficienza e l’occhiuta indifferenza dei soloni e dei catoni. “Nessuno ci ha avvisati. Nessuno ci ha detto della perdita dei motori all’altitudine più bassa nella storia dell’aviazione”, rivendicò in aula Sullenberger. E vinse, tenendo a braccetto la verità dei fatti.

Coinvolgente, serrato, empatico, Sully evoca, anzi, pre-evoca l’avvento di Trump in questo assolo collettivo anti-sistema, soprattutto, riafferma il potere del cinema, dell’arte tutta, quale fatto politico, quale affondo ideologico, presa di coscienza etica. E lo fa nella cornice del film d’impegno civile e resilienza umana, il solo capace di ribaltare un quasi certo disaster movie in una success-story umanista. Avercene di Sully, avercene di Clint.