Documentarista di grande levatura, Leonardo Di Costanzo, dopo L’intervallo e l’episodio del film collettivo I ponti di Sarajevo, torna alla finzione con L’intrusa.

Nel cinema del regista napoletano però non è mai possibile separare nettamente presa diretta della realtà e costruzione del racconto, e anche in questa occasione emerge un’attitudine che tende a mischiare i due piani.

Se il modo di puntare la macchina da presa svela l’occhio documentario, la sceneggiatura lascia intravedere un lungo lavoro di scrittura per approdare felicemente alla massima naturalità.

La vicenda all’apparenza essenziale si dipana attorno a Giovanna, una donna del Nord a Napoli da molti anni, attiva nel mondo del volontariato in quanto responsabile di un centro di accoglienza per bambini spuntato ai margini di quartieri disagiati e lambiti dalla camorra.

E proprio la malavita irrompe nel microcosmo protetto sotto le sembianze di una ragazza, moglie di un boss, che insieme ai due figli prende possesso di una casupola all’interno della proprietà.

La presenza crea disagio nelle madri degli altri ragazzi, Giovanna invece è dilaniata dal dubbio se allontanarla o tenderle la mano.

L’intrusa si racchiude tutto intorno alla domanda della protagonista, sollevando con semplicità questioni etiche di dirompente attualità.

Giovanna non ha certezze cui aggrapparsi, se non i propri saldi principi morali. A essi fa appello per dipanare un’intricata matassa che intreccia responsabilità individuali e collettive, obblighi dello stato e coscienza dei singoli. Un labirinto in cui lo spettatore si perde al pari della protagonista.

E anche se alla fine Di Costanzo una risposta la suggerisce, in realtà lascia aperti molti e profondi interrogativi legati all’atteggiamento giusto da assumere di fronte al disagio vissuto da tanti esseri umani.

Ogni individuo è chiuso nel proprio mondo, così come il centro di accoglienza. Lasciare una porta aperta è un atto che può portare il caos, ma proprio per questo rivoluzionario.