Programmaticamente respingente, La region salvaje di Amat Escalante racchiude le due anime del recente cinema messicano, quella brutalmente realistica e quella più immaginativa. Senza il rigore e gli slanci metafisici di un Reygadas, mantenendo anzi - e nonostante il meteorite dell'inizio - un approccio radicalmente immanente, Escalante, tre anni dopo Heli, alza il tiro delle proprie ambizioni con un'operazione disturbata e disturbante, desiderosa di superare il crudo realismo portandolo nel territorio della fantascienza e dell'horror. E all'inverso.

Da un caso di cronaca nera - un marito che aveva una relazione clandestina col cognato, che finisce per uccidere - Escalante trae lo spunto per un'operazione di perturbante indeterminatezza (di tono, di genere, sessuale) - la region selvaje del titolo? - facendo slittare di continuo il discorso e le aspettative che stimola verso territori non nuovi né inesplorati, semplicemente incongrui. Mentre il look visuale resta apprentemente ancorato ai codici del naturalismo, è il sound a giocare una differenza importante, a suggerire uno scollamento, un precipitare - il cratere? - del dato di realtà. Finendo per suggerire una doppia articolazione dell'immagine, che vale di per sé e anche per altro da sé, nel continuo rimpallo tra denotazione e connotazione, deissi e metafora.

Che cos'è dunque l'essere nel capanno che fornisce alternativamente soddisfazione sessuale e dolore - morte persino - alle due donne protagoniste? E chi i loro guardiani? Visivamente la creatura di Escalante riprende il polpo delle stampe di Hokusai, come già aveva fatto Zulawski in Possession, ma il suo significato è meno determinabile: le oscure pulsioni del desiderio? La dipendenza dal sesso? O, in un paese che è tra i maggiori esportatori di narcotici, la droga? Non lo si può dire. Escalante lascia aperta la questione, senza per questo rinunciare a suggerire qualcosa del suo paese. Quel Messico che, piuttosto, non è mai parso più indecifrabile e inquietante.