Sam Mendes mantiene le promesse: mostrare la Guerra del Golfo come non l'abbiamo mai vista. Scandagliando dinamiche e follie della vita militare, il regista premio Oscar per American Beauty, si destreggia in bilico fra cronaca e denuncia, con un ritratto astuto e politicamente molto corretto. Se il diario dal fronte del tiratore scelto Anthony Swofford aveva sollevato le ire del corpo dei Marines, il suo adattamento cinematografico zoomma sui protagonisti, depotenziandone le scomode implicazioni politiche. Distante anni luce dalla tradizione dei film bellici sul Vietnam, il contesto sfuma sullo sfondo fin quasi a perdere i connotati. Poco importa che si tratti del Golfo Persico. E poco importa che in ballo ci sia il controllo petrolifero del pianeta. Quel che resta sono pozzi in fiamme, colonne di fumo, interminabili distese di sabbia. Elementi a cui Mendes affida un ritratto tanto vago e universale da risultare praticamente innocuo. "Un film sulla guerra, senza la guerra", lo aveva chiamato, che in questo apparente paradosso riassume l'acme della sua denuncia. Uno j'accuse trasversale, che punta il dito su un fenomeno, ma si dimostra al contempo rispettoso del patriottismo di chi per scelta o destino finisce a combattere. L'equilibrismo riesce grazie alla prospettiva scelta: quella di un plotone di Marine, inviato nel Golfo a presidiare le linee. Protagonista è Jake Gyllenhaal, nei panni dell'autore del diario a cui è ispirato il film. Bravo e versatile nell'incarnare la parabola dell'americano medio, con la sua vicenda personale offre il destro per mille altre storie. Quelle di soldati, sì. Ma soprattutto di ragazzi, che come tanti soffrono, credono, piangono la distanza delle fidanzate. La macchina da presa è tanto vicina da trapassarne quasi le uniformi. Con forza e pudore si insinua nelle loro vite private, mostrando quel che resta sotto i galloni: esseri umani, in preda alle stesse contraddizioni di tutti.