Dal primo libro della Trilogia della città di K di Agota Kristof, Il grande quaderno non è film da passare inosservato. Qua e là cade nel melodramma, eppure sa colpire, e sa far male: a nostro beneficio, s’intende, perché la cornice è allegorica, il ritratto antibellico. Dice il regista János Szász, è “una storia crudele di bambini innocenti, ma che resistono a tutto. Il racconto di due gemelli assassini. Due corpi, uno spirito; due corpi, una volontà”. Potrebbe fare pure il critico, le sue note di regia illuminano: due corpi, quelli dei gemelli Egyik e Thomas, un destino infame. La madre li lascia, andrebbe detto “nella loro più tenera infanzia”, alla nonna: per farvi capire chi è, il villaggio la chiama strega, lei di rimando appella i nipotini “figli di cagna”.

Siamo nel ’44, la guerra infuria, la guerra quanto durerà? I due piccoli non si fanno illusioni, e si preparano: scudisciate autoinferte per irrobustire il fisico, studio e lettura, anche della Bibbia, per temprare la cultura e, soprattutto,l’insensibilità quale meta finale. Il viaggio è di ordinaria amministrazione bellica: una ragazza leporina da cui imparare a rubare, le lusinghe omosessuali di un ufficiale tedesco, il campo di concentramento a due passi, i giochetti erotici di una fantesca e un prete da ricattare. Romanzo di deformazione, sintassi criminale: via i sentimenti, rimane la prassi della sopravvivenza, non con qualcuno, ma contro tutti. Due figli di cagna soli al mondo, e pronti persino ad abbandonare la loro molecola elementare.

Le pagine della Kristof, è noto, sono più radicali, eppure questa trasposizione – il grande quaderno è il diario della loro chiusura alla pace – non delude: eccellenti gli interpreti principali, i due ragazzi Gyémánt e Piroska Molnáralias la nonna, eidetica la fotografia di Christian Berger (Il nastro bianco), efficace la tensione paradigmatica, che ogni guerra fa vittime, carnefici e chi sta in mezzo. Qui tra le righe del grande quaderno l’infanzia negata ha un inchiostro di sangue.