Nel talamo sontuoso al centro di una enorme stanza-palcoscenico (la storia sul piedistallo della Storia), il massimo cineasta di tutti i tempi perde con stupore temperato d'ironia la verginità omosessuale, scopre l'amore per un elegante messicano insegnante di religioni comparate e respinge sia il capitalismo dei produttori del nuovo film sia la schiavitù culturale del suo paese comunista. Nei 10 giorni che Eisenstein trascorse a Guanajuato (21-31 ottobre 1931) Peter Greenaway vede, sente, documenta, proietta una frattura esistenziale, un'estroversione e un'espansione del Genio. Una certa anima russa, letteraria (Tolstoj e Dostoevskij) e sociale (il principio della rivoluzione di libertà) che risuonava riconvertita nell'ordinamento sovietico, in un nuovo linguaggio (chiaro, esplosivo, in Sciopero, La corazzata Potemkin, Ottobre e Il vecchio e il nuovo) riscopre se stessa nel viaggio in Occidente, approdato alla sensualità, all'oblomovismo messicano: si scopre viva, trova un'identità, una verità della persona finalmente a scapito del personaggio, l'istituzione istituita nella dittatura stalinana. Non è che con Greenaway ci sia spazio per biografismo e aneddoto: assume l'iconografia generale (l'estrosità dei ritratti, le sequenze celebri, il bestiario dei personaggi d'epoca) la smonta e la raggiunge ancora immaginando il fervore, le emozioni, i passaggi, le crisi, che la motivano. Bellissimo il rimontaggo di Esisenstein e il teschio dopo la telefonata-confessione con la segretaria Pera. Come sempre la scena e il corpo, cioè Eros e Thanatos, informano l'architettura concettuale dello schermo e compongono uno sguardo cubista sull'oggetto. Tutto vero (i disegni erotici, il vestito bianco, gli incontri, telegrammi e lettere). Tutto falso (il resto). Cioè, così fu. "La Storia non esiste", dice Greenaway, "esiste l'invenzione". Nel richiamo all'attenzione creativa del cinema, all'enigma estetico, non è un film per tutti. Ma chi fa film per tutti? Spielberg, e non è detto. Greenaway fa Greenaway.