Lo si potrebbe definire un dramma da camera Clash dell'egiziano Mohamed Diab, film di apertura di Un Certain Regard tutto girato dentro lo spazio chiuso di un van, l'Alexa Mini della polizia del Cairo.

Abitacolo del conducente a parte, sono 7 mq di spazio per 25 prigionieri, costretti a convivere un intero giorno fiato a fiato. Giornalisti americani, fratelli musulmani, comuni cittadini senza simpatie politiche o identikit religiosi, finiscono nella rete della polizia egiziana, arrestati durante una delle tante manifestazioni di piazza esplose al Cairo all'indomani della rimozione di Morsi, il leader dei Fratelli musulmani democraticamente eletto nel 2013 e poi deposto dall'esercito in circostanze tutt'ora non chiarite.

Quello che sta vivendo il paese, precipitato nel caos di una guerra civile strisciante, viene mandato in replica all'interno del furgone, con il gruppo di prigionieri che si divide immediatamente in fazioni, anche se la comune condizione di vittime aprira' di tanto in tanto spiragli insperati di solidarieta'.

Lo sguardo di Diab sembra cercare possibilita' di pace nel volto "nuovamente umano" dei suoi personaggi, su cui indugia in primi e primissimi piani, ribaltando intelligentemente il significato del furgone, da trappola mortale a rifugio contro l'inferno di fuori, che travalica ormai gli schieramenti e sembra disinteressarsi delle sue ragioni.

Come e piu' del precedente Les femmes du bus 678, il filmaker egiziano usa lo spazio in senso metonimico e in funzione claustrofobica, sposando un approccio tutto fisico con il visivo, dove e' raro vedere un campo medio o una pausa nell'incessante movimento della mdp. Un film asfissiante, violento, ribollente, ma anche superficiale nelle dinamiche che innesca, scoperto nelle intenzioni, didascalico in alcuni passaggi. Il classico pugno in faccia che dura il tempo che dura. Un gesto di frustrazione comprensibile, ma poco determinante.