Che cos’è un Manrico? Non è una domanda peregrina quella che si pone Antonio Morabito. Il regista de Il venditore di medicine (2013) aveva in precedenza realizzato un documentario atipico seguendo le giornate di Manrico Zedda, trentenne distrofico, che muove debolmente solo la testa e i pollici. Orfano di padre e madre, vive da solo con la nonna ormai incapace di provvedere alle sue esigenze, in totale dipendenza da operatori sociali e volontariato. Manrico è un ex giocatore della nazionale di hockey su sedia a rotelle, uno stonatissimo cantante, un assiduo frequentatore di social network ("Ho 32 profili Messenger, una quindicina di profili Facebook. Ho anche avuto una relazione virtuale per tre mesi con un uomo, lui era convinto che fossi una donna. Mi divertiva questa cosa, anche perché credo di avere una bisessualità latente. Ma soprattutto, se nelle chat dici di essere un uomo, per lo più sulla sedia a rotelle, è una tabula rasa...").

Manrico, insomma, è sarcastico, incisivo, provocatorio, sessuato, arrabbiato, ironico, sorridente, ridanciano. Ma Manrico non è solo questo. Morabito segue sette giornate normali per Manrico e il suo operatore, Stefano, trascorse nel cuore di Roma, d’estate, in sella ad una carrozzina a motore, a fare slalom tra le macchine, arrampicandosi per i marciapiedi ostruiti, facendo tappa nei bar di Borgo Pio, nei ristoranti cinesi, a piazza San Pietro, fra i suonatori di strada di Campo De’ Fiori, arginando in casa quel torrente in piena che è la nonna, andando a vedere una partita della sua squadra di hockey per la prima volta da spettatore, in mezzo a tanti altri Manrico. Ma Manrico non è solo questo.

Che cos’è un Manrico, dunque? E torniamo alla domanda originaria, che dà anche il titolo a questa opera meritatamente riscoperta da Istituto Luce-Cinecittà: sì, perché anche attraverso parecchie risate (grazie a situazioni tragicomiche, come le conseguenze di una "camminata" in carrozzella sui sampietrini di Roma...), Morabito non fa altro che svelare quanto quella domanda, in fondo, diventi (anti)retorica. Contro qualsiasi forma di "politically correct", cercando anzi di superare "le solite idee superficiali che accompagnano l'immagine del disabile nella mente dei cosiddetti sani", capiamo dalle parole dello stesso Manrico (purtroppo deceduto dopo la realizzazione del film) quanto "il pietismo sia alla base della discriminazione. Di qualsiasi discriminazione: se provi pietà per una persona finisci per sentirti a lei superiore. E sentirsi superiori è segno di arroganza".

Poi, certo, è innegabile, Manrico è "diverso" dalle persone in salute perché non ha la libertà di poter fare molte di quelle cose che i "normodotati" riescono a fare da soli, come mangiare, lavarsi, prendere l'ascensore e via dicendo. Ma non per questo ha smesso di affrontare l'esistenza con forza e vitalità, trovando nell'interazione con gli altri il senso più profondo della vita: "Nel momento in cui non riesci più a comunicare con gli altri, che sei rinchiuso in un corpo, sarebbe ancora vita? Interagire con gli altri per me è fondamentale, se non potessi più parlare che vita sarebbe?", si chiede Manrico. Di fatto, spiegando con semplice lucidità quello che Morabito ha trovato in lui: "Nell’arco di questi mesi ho visto quanto Manrico sia fatto della stessa materia di cui sono fatto io. Per ogni elemento di diversità dovuto alla malattia, ce ne sono mille di affini dovuti all’esistenza".