Ben (Viggo Mortensen), padre-padrone imperativo e categorico, ma anche empatico e amorevole, cresce con la moglie sei figli nelle foreste di Washington, educandoli a caccia e pesca, filosofia e fisica, con l’isolamento dalla società e il rifiuto del consumismo per basso continuo. Uno stato d’innocenza destinato a non durare: la moglie, sofferente di disturbo bipolare, muore, Ben e i sei figli salgono a bordo di Steve, il loro, ehm, idiosincratico bus, e partono alla volta del funerale. Perché le volontà della donna devono essere rispettate: costi quel che costi.

Opera seconda di Matt Ross, pluripremiata dal Sundance a Cannes (Un Certain Regard), Captain Fantastic dà a Viggo Mortensen il ruolo di una vita, e a noi spettatori più di qualche sana riflessione su libertà, educazione, isolamento, consumismo, annessi e connessi, esternalità positive e negative: un dramedy onesto, a tratti perfino commovente, che senza indulgere nel cinismo o indugiare nell’ironia pavida utilizza il formato familiare, con tutte le ripercussioni educative del caso, per parlare del libero arbitrio e della responsabilità individuali e sociali.

Ben non è un mostro, tutt’altro, ma il suo fuggire dal mondo non ha forse i crismi della dittatura nei confronti dei figli: perché il figlio maggiore (George MacKay) non dovrebbe igliaandare all’università, dove è atteso – quelle della Ivy League l’hanno accettato tutte – a braccia aperte? Ancora, perché la figlia maggiore dovrebbe rischiare l’osso del collo su un tetto? Domande che Captain Fantastic dissemina in una drammaturgia sapida e matura, che pur imbarcando inverosimiglianze (o cervo ucciso a coltellate, le risposte sapute dei bimbi) e stracche non si piega alla noia. Peccato, però, il finale: questo proprio non va.