Raccontare la perdita è difficile. Sulla carta è meno arduo, il vuoto può essere sostituito dalle parole che riempiono lo spazio bianco della pagina, mentre al cinema deve essere riempito di ricordi inventati che devono sembrare reali e da un dolore impossibile da fingere.

Da noi ci aveva provato, riuscendoci in parte, Nanni Moretti, con La stanza del figlio. Nel cinema americano è un argomento che torna spesso, vuoi per la grande tradizione che ha il melò come genere, ma soprattutto perché da nazione costruita sul sangue delle sue guerre, l’assenza dei propri cari è un tema culturalmente rilevante.

Lo aveva raccontato benissimo Malick in The Tree of Life, per certi versi ancora meglio Robert Redford in Gente comune. Ci prova, e ci riesce, Daniel Barnz con Cake, storia di un avvocato di successo che ha perso il figlio a seguito di una tragedia stradale in cui lei stessa ha subito traumi permanenti ed è rimasta sfigurata. Dipendente dagli antidolorifici, si ossessiona al suicidio di una donna facente parte del suo gruppo di supporto che aveva subito la stessa perdita. Inizia così a investigare sulla sua vita, cercando di ritrovare la propria.

Raccontato con grande attenzione nei confronti del tema, ma anche con una dose di ironia pericolosa e molto ben gestita, Cake è soprattutto un veicolo per la bella Jennifer Aniston, qui con il viso deturpato dalle cicatrici, per dimostrare al mondo che i tempi di Friends e Brad Pitt sono ormai definitivamente dimenticati. La Aniston offre un’interpretazione magnifica, per l’ottimo lavoro con il corpo e per l’intensità con cui riesce a trasmettere il dolore emotivo del suo personaggio.

Nonostante la presenza di altri due nomi di livello come Anna Kendrick e Sam Worthington, Cake è un piccolo film, di quelli che andavano negli anni Novanta, quando l’indie non era ancora un business più redditizio dei blockbuster. Forse con una nomination all’Oscar per la protagonista sarebbe stato diverso, ma così gli si vuole un po’ più bene.