“Nello spazio nessuno può sentirti urlare”.

 

Prosegue il cammino di avvicinamento alle vicende raccontate in Alien (1979). Una decina d’anni dopo i fatti di Prometheus, primo capitolo della trilogia prequel della saga, ci troviamo a bordo della nave madre Covenant, anno 2104.

L’equipaggio e le oltre 2.000 forme di vita embrionali dormono nell’ipersonno. La destinazione è il pianeta Origae-6, sul fianco estremo della galassia, dove i coloni sperano di stabilire un nuovo avamposto per l’umanità. A bordo, l’unico sveglio è l’organismo sintetico Walter (Michael Fassbender), chiamato a controllare costantemente i parametri vitali di ognuno e dell’astronave stessa.

Un’imprevista esplosione stellare, però, cambia le carte in tavola: l’equipaggio – che perde alcuni componenti – è costretto a svegliarsi anzitempo, la missione deraglia. E, da un luogo sconosciuto, arriva un misterioso segnale audio.

“Lo senti?”

“Che cosa?”

“Il niente. Nessun uccello, nessun animale. Niente”.

 

Quel segnale li richiama su un pianeta sconosciuto, più facilmente raggiungibile di Origae-6 e, potenzialmente, altrettanto valido per ospitarli. È un’occasione da non perdere. La squadra inviata in ricognizione – composta tra gli altri dal capitano Oram (Billy Crudrup) e l’esperta di terraformazione Daniels (Katherine Waterston) – si ritrova così in una sorta di paradiso ancora apparentemente inesplorato: ma quell’Eden indisturbato, con montagne coperte di nuvole e alberi altissimi, nasconde in realtà una minaccia terribile, ben al di là della loro immaginazione.

E ben presto saranno costretti a rivedere il concetto di colonizzazione. Dalla prospettiva opposta.

La traccia è segnata. Ridley Scott scopre le carte, si serve dell’Entrata degli Dei nel Valhalla di Richard Wagner per sottolineare, amplificandolo, il passaggio cruciale che dopo Prometheus lo sta riportando verso la creatura primigenia, Alien.

 

È un percorso circolare, e coerente in un certo qual modo, che svela poco a poco quanto (quella che sarà) la battaglia senza esclusione di colpi tra Ellen Ripley e lo xenomorfo sia in realtà figlia di un disegno, una strategia messa in atto anni prima.

È la questione filosofica, prima ancora che (fanta)scientifica, ad alimentare la natura della saga-prologo e in questo secondo capitolo, Alien: Covenant Future Film Festival (oggi in anteprima al di Bologna, dall'11 maggio nelle sale italiane), esplode con veemenza la riflessione sulle derive colonizzatrici che, da sempre, hanno contraddistinto gli esseri umani.

Da questo punto di vista, il film di Scott – mai così esplicitamente horror – sfrutta anche l’ambiguità legata alla (doppia) figura dell’androide. L’incontro tra Walter e il suo omologo sintetico, David, rimasto su quel pianeta dopo la disfatta del Prometheus, apre scenari per certi versi già esplorati in Blade Runner (sulla natura umana dei replicanti), declinando in termini di ossessione e tensione all’onnipotenza anche le creazioni degli uomini.

Spettacolare per ambientazioni ed effetti speciali, inquietante nella resa sempre più famelica e distruttiva degli xenomorfi, parassitoidi devastanti quasi impossibili da debellare, il film regala momenti cari ai cultori della saga (come la ricomparsa dello Stringifaccia…) ma non riesce a salvarsi da alcune situazioni al limite del ridicolo involontario (alcuni dialoghi tra i “due” Fassbender sono da antologia, in questo senso).

 

Al netto di questi scivoloni, però, la visione resta un passaggio impossibile da eludere. In attesa dell’ulteriore, ultimo (?), capitolo che – nuovamente – ci ridesterà dall’ipersonno per sbatterci in faccia l’incubo alieno. Ennesimo patto (covenant…) cui dovremo sottostare prima di tornare sulla Nostromo di Ripley. L’anno 2122 è vicino.