Maschiaccio, anzi, no. 10 anni, un trasloco e un nuovo quartiere parigino da vivere con i genitori e la sorella più piccola Jeanne: si chiama Laure (Zoé Héran), ma per i nuovi amichetti si chiama Mickaël. Si veste e si pettina come un maschiaccio (tomboy, in inglese), gioca  calcio da Dio, mena le mani: se per fare il bagno c'è del pongo da infilare nel costumino, per coprire la sua vera identità può contare su Jeanne. Ci scappa anche un bacetto con l'amica Lisa, ma l'inizio della scuola è dietro l'angolo: che fare, come continuare la “finzione”?

Domande buone per un piccolo grande film: 260mila spettatori in patria, Teddy Award a Berlino e due premi al 26° festival GLBT di Torino, è Tomboy della francese Céline Sciamma, classe 1980. Che manda a memoria l'Io è un altro di Rimbaud, affidandone onore e oneri a Laure e al suo Mickaël chiamato desiderio: esplorazione della sessualità, ricerca dell'identità, libero arbitrio, chi più ne ha più ne metta, ma la misura non è mai colma, l'occhio dello spettatore è il benvenuto, l'enfasi – a parte qualche sbavatura di pongo e qualche manicheismo parentale - relegata nel fuoricampo e la costruzione a tesi - seppur non del tutto - scongiurata.

E che dire dei piccoli interpreti? Formidabili, su tutti la Malonn Lévana di Jeanne, e diretti con una levità magistrale dalla Sciamma, che garantisce briglia sciolta e fissa su pellicola espressioni e smorfie, segreti, bugie e serietà, perché si può essere seri – troppo? – a dieci anni. Insomma, siamo anni luce distanti dai bambini saputelli e troppo - drammaturgicamente - pasciuti del cinema italiano: i cugini ci danno l'ennesima lezione infantile, ma non drammatizziamo, è solo una questione di poetica, al di là del gender e dell'età.

Tomboy sfiora il cuore, ibridando sensibilità e leggerezza, introspezione  e geometrie relazionali, fino al primo privilegio dell'uomo: dare un nome alle cose, anzi, dare un nome a se stesso. “Mi chiamo Laure”, e sono un altro.