Già premio Oscar per il documentario One Day in September e apprezzato regista de L’ultimo re di Scozia, Kevin MacDonald porta sullo schermo con The Mauritanian la vera storia di Mohamedou Ould Slahi, imprigionato dagli Stati Uniti per sospetto terrorismo ed affiliazione ad Al-Qaeda nel campo di detenzione militare di Guantánamo per quattordici anni, dal 2002 al 2016, senza essere stato mai formalmente accusato di alcun reato. Rimarrà prigioniero anche dopo un ordine di scarcerazione emesso da un giudice federale, ma non tacerà: il suo memoir Guantánamo Diary, scritto dietro le sbarre, diverrà un bestseller e, soprattutto, un atto di accusa personale, terrificante e insieme empatico e umoristico di un errore giudiziario capitale.

Tahar Rahim incarna Mohamedou Ould Slahi, Benedict Cumberbatch è il procuratore militare votato alla verità, il tenente Stuart Couch, Jodie Foster e Shailene Woodley sono gli avvocati difensori di Slahi Nancy Hollander e Teri Duncan.

In cartellone (Berlinale Special) a Berlino 71, prossimamente su Prime Video, The Mauritanian inquadra una storia drammaticamente esemplare con passione civile, tensione umanista e memento morale: nulla, purtroppo, che non si sia già visto, tra finzione e realtà sul fronte torture, waterboarding e altre amenità, ma dalla sua MacDonald ci mette impegno, di più, dedizione alla causa, con una camera – la sceneggiatura collettiva non lo vede al tavolo – agit-prop e stile compreso.

Già, il formato: sebbene Rahim sia bravo, Foster brava e bella, Woodley e Cumberbatch ordinari ma non mediocri, il film confessa tutta la propria medietà allorché nel finale apre al documentario, ovvero al footage di Slahi al momento del ritorno in Mauritania e dopo.

A parte che buca lo schermo come la controfigura Rahim si può solo sognare, porta con sé realtà e verità che il film, dobbiamo constatare, non aveva, non a quel livello almeno. Insomma, al clan MacDonald concediamo l’onore delle armi, e nulla più.