La storia è bizzarra, imprevedibile, nasconde bene le sue carte. I personaggi tutti interessanti. Ci sono due uomini, due amici, uno di origine spagnola (Sergi Lopez), l'altro belga (Jan Hammenecker). Condividono - per motivi che ci verranno rivelati solo nel finale - una donna (Anne Paulicevich, anche co-sceneggiatrice), madre di un ragazzino sempre ingrugnato (Zacharie Chasseriaud), infermiera e ballerina di tango a tempo perso. Potrebbe sembrare il classico ménage a trois, ma non lo è: c'è un terzo uomo (François Damiens), il tipico sfigato. Vive da solo, con un pesciolino rosso. Fa la guardia carceraria, anche lui è un dilettante del tango. E' durante una delle lezioni di ballo che conosce la donna e se ne innamora. C'è un problema, anzi più di uno: nel penitenziario dove lavora l'uomo sono rinchiusi i due amici di cui sopra, sentimentalmente legati alla donna di cui sopra, la madre e l'infermiera e la ballerina di tango. Sarebbe già una situazione difficile là fuori, figuriamoci dentro lo spazio chiuso e il tempo sospeso di una realtà dietro le sbarre. Eppure da una situazione paradossale possono venire fuori le soluzioni più inaspettate.
E di certo non lesina sorprese il nuovo film del belga Frédéric Fonteyne, vecchia conoscenza veneziana (nel 1999 aveva presentato in Concorso Una relazione privata, che consentì a Nathalie Baye di vincere la Coppa Volpi) e di ritorno al Lido con Tango Libre, presentato in Orizzonti. E' il film che chiude la trilogia dell'amore, dopo Una relazione privata e La donna di Gilles. Rispetto a quei due ha un intreccio più aggrovigliato e un approccio più accattivante, tragicomico; resta però fedele alla fedeltà nell'amore, e pazienza che l'ubbidienza a questo finisca per generare le infedeltà più assurde e le situazioni più improbabili. Pascal docet: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Anche il cinema ha le sue e Fonteyne mostra di conoscerle tutte: il film è ineccepibile per stile, scrittura, recitazione. Ha originalità da vendere - l'abbiamo detto - e lodevole scaltrezza per come riesce a dipanare quest'intricata matassa (con un leggero appunto sul finale, fin troppo sbrigativo).
Tango Libre è tanti film in uno (forse persino troppi): è una commedia romantica e machiavellica, un prison movie leggero, una storia di incontri inaspettati e dolori insostenibili. E' anche un film sul rapporto padre/figlio, un musical a passo di tango (pardon milonga, "la malinconia triste del tango", a detta del regista). E il tango è un generatore di ulteriori sottotesti: ballato in carcere dai detenuti - in una delle scene più belle insieme all'incipit - diventa metafora della volontà di liberazione dei corpi. Ma c'è molto altro: il tango si fa passione, tradimento, omosessualità latente, desiderio della donna. Il tango è ritmo, e Tango Libre ha il ritmo sincopato di una milonga, fatto di correnti emotive che s'incontrano/scontrano, di improvvise accelerazioni, pause, fasi di studio, esplosioni.
Ma questo è un film anche sul cinema, sull'atto del vedere. Come la guardia che vede e non viene visto da nessuno, così è lo spettatore. Il suo modo di osservare il mondo cambierà quando ciò che guarda rimetterà in moto il circuito misterioso della passione. Quando da spettatore diventerà finalmente attore. E in fondo cos'è il cinema, se non questo meraviglioso atto di fede e d'amore capace di "farci vivere" ciò che prima stavamo solo guardando?