Il filippino Lav Diaz gode di un posto fisso al concorso della Berlinale. E non è il solo privilegio. Ai suoi lunghissimi film viene concesso tutto il tempo di cui hanno bisogno. Questa volta il suo Season of the Devil dura 234 minuti. Per molti critici il diavolo è lui. In immagini digitali in bianco e nero, cui manca naturalmente la profondità del materiale filmico classico, Diaz ci conduce in un crepuscolo cinematografico fatto di storia, improvvisazione e un approccio psicoterapeutico al trauma.

L’epoca questa volta è l’orrenda dittatura Marcos degli anni settanta, quando spietate truppe di civili alleate con i militari andavano in giro per il paese a insegnare la morte e il terrore ai civili. Ma l’artiglieria pesante non è la sola arma a loro disposizione.

È l’atmosfera di paura, nutrita di diffidenza, e l’eliminazione sistemica di ogni tradizione spirituale, che crea un deserto umano da cui è difficile fuggire. Con la scusa di lottare contro gli infedeli, le truppe di esaltati sono i veri spiriti maligni che infestano il paese.

 

Il rumoreggiare dei kalashnikov non è l’unico sottofondo musicale: Diaz lascia le sue figure cantare canzoni popolari antichissime e diffuse in ogni piega, almeno così sembra, della vita quotidiana.

Da un punto di vista sonoro il film è fatto di quattro ore di materiale musicale scarnificato e sempre uguale. Una cantilena senza fine che mette a dura prova. I sonori da baritono di un dilettante molto dotato danno il tono e segnano i passaggi che dovrebbero essere cruciali di questa storia: Piolo Pascual interpreta l’attivista e poeta Hugo Haniway, che canta contro la dittatura mentre cerca disperato la moglie scomparsa.

Forse è l’aggettivo "penetrante" il migliore, senza giudizi, per descrivere il sotteso di questa pellicola. Questo è il cinema di Lav Diaz: un loop senza fine di immagini senza parole tenute insieme da un sonoro senza variazioni.

Diversamente dai predecessori del minimalismo epico, Béla Tarr, James Benning o Apichatpong Weerasethakul, al cinema di Diaz manca quel minimo di superfluo estetico che potrebbe, almeno, restituire, con valore aggiunto, il tempo investito. Il tempo che diamo a Diaz invece non lo vediamo più.

Il suo è un cinema della tortura, non dell’edificazione, che elimina preciso ogni possibilità di sublimazione. Tutto questo non significa che Diaz, i cui film si vedono praticamente solo nel circuito dei festival, non sia un’artista. Semplicemente non è un grande artista. La sua arte tediosa non genera neppure una distruzione creativa, o una qualche anti estetica, spesso attribuita, a torto, al suo cinema. Ogni volta viene paragonato a Fassbinder e ogni volta bisogna darsi da fare per salvare la memoria del maestro tedesco.