Una foto ingiallita su cui proiettare una nostalgia dal sapore amaro e semplicistico: così appare la Sicilia dei primi anni '50 rievocata da Beppe Cino in Quell'estate felice, sospiroso melò ispirato al romanzo Argo il Cieco di Gesualdo Bufalino. Il film è costruito intorno al ricordo dell'amore non corrisposto di un anonimo professore di latino per una donna affascinante e ribelle, icona di una femminilità molto diversa da quella rappresentata nella tradizione della commedia all'italiana. Sullo sfondo, una società contadina in cui la modernità comincia a entrare di striscio, con le automobili, le insegne al neon e il boogie-woogie. Peccato che la patina polverosa della fotografia non sia solo una caratteristica fotografica, ma anche concettuale e stilistica. Il film incomincia e procede con versi recitati da una voce off che sembra uscita da un audiobook, aulica e letteraria, quasi compiaciuta del suo indugiare in fronzoli poco attinenti al mezzo cinematografico. La ricchezza delle scenografie omaggia senza dubbio il fascino retró della location Sicilia, ma nel complesso l'affresco di Cino scavalca i margini del tributo per arenarsi in una retorica altamente patetica e spesso reazionaria. Al protagonista si fanno addirittura rimpiangere i tempi in cui la maggior parte della popolazione era analfabeta e la scrittura privilegio di pochi, mentre il personaggio principale, la bella e indomita Maria Venera (interpretata da Olivia Magnani), non rappresenta tanto una donna emancipata e consapevole di sé, quanto una specie di dark lady cinica, senza scrupoli e mantenuta, capace di abortire solo per fare un dispetto all'ex-amante. Il tema della gravidanza interrotta, poi, meriterebbe una parentesi a parte, con la macchina da presa che indugia sui particolari più truculenti invece di puntare su quel rispetto e quella discrezione che, ad esempio, ha saputo usare Mendes in Revolutionary Road. Ne esce una visione della Sicilia e delle sue donne più vecchia di qualsiasi commedia alla Germi, nonché grosse cadute di buon gusto, a riprova di quanto facile sia scambiare la sensazione per sentimento, la presunzione per impegno, la ripetizione per omaggio ai classici.