Produzione Colorado, distribuzione Medusa e cast magniloquente: Diego Abatantuono, Monica Guerritore, Salvatore Esposito, Cristiano Caccamo, Dino Abbrescia, Diana Del Bufalo, Antonio Catania, Beatrice Arnera e il wedding planner Enzo Miccio. Dopo il flop – chi lo ricorda? – Ma che bella sorpresa? del 2015, Alessandro Genovesi porta sullo schermo, libero adattamento, la pièce My Big Gay Italian Wedding di Anthony J. Wilkinson, inquadrando il matrimonio gay o, meglio, le unioni civili.

Adiuvato, post copione, dall’associazione Diversity che si occupa della rappresentazione responsabile delle persone LGBTI, sicché alcuni abbracci si sono trasformati in baci, mette in piedi una commedia sentimentale, seguendo la perigliosa preparazione delle nozze tra Antonio (Caccamo) e Paolo (Esposito, il Genny Savastano di Gomorra), che dalla Berlino in cui convivono tornano in Italia per convolare. Accompagnati dall’amica Benedetta (Del Bufalo) e dal nuovo arrivato Donato (Abbrescia), raggiungono a Civita di Bagnoregio la famiglia di Antonio: mamma Anna (Guerritore) e papà Roberto (Abatantuono), che dell’ameno borgo viterbese è il sindaco progressista, lieto di ricevere i migranti, meno un figlio gay, ancor più da sposare. All’uopo, butta lì considerazioni bestiali, “Non sono felice se c’ho un babbuino in casa”, e dinieghi espliciti, “Io non posso essere felice se siete felici voi”. Che fare?

Assegnare le ragioni alla madre, che avalla le nozze ma vuole una cerimonia old fashioned e grandiosa e così Miccio, e mettere in mezzo un frate francescano, don Francesco (Catania), che sulla scorta del bergogliano “Chi sono io per giudicare (un gay)?” dialoga con il ritratto di papa Francesco e si risolve, nello sconcerto dei ragazzi e di Anna, a celebrare lui stesso il matrimonio: provocazione, boutade, chissà? Don Francesco dichiara: “Chi siamo noi per dire che questo amore è sbagliato”, “Se è vero amore non può essere che giusto”, “La colpa non esiste, esistono solo responsabilità”, ma poi pretende che nella chiesa sconsacrata scelta infine per la cerimonia venga rimosso il crocefisso piazzato da Miccio a scopo meramente ornamentale.

Insomma, grande è la confusione sotto l’abside, e il problema principe è l’irresolutezza, la superficialità, il cerchiobottismo, la contraddizione interna: l’inclusione dei gay, ovvero la propalazione di un matrimonio gay che in Italia non c’è, viene drammaturgicamente e soprattutto ideologicamente fatta scontare a un travestito macchiettistico, incolore e all’acqua di rose (Abbrescia) e una stalker inconsulta e vieppiù odiosa (Arnera).

Non c’è la serietà, né la forza per affrontare il tema che s’è scelto, e occhio a non equivocare questa superficialità nociva con la pretesa leggerezza: no, Puoi baciare lo sposo si circoscrive nella scena di Catania che parla francescanamente con l’ape e, meglio, la capra.

Certo, Abatantuono è un fuoriclasse pur frenato se non inibito dal copione, mentre la Guerritore non si amalgama perché recita come fosse Shakespeare, ma credere, anzi, pretendere che un film come questo aiuti, ovvero porti consiglio o almeno qualche dato di realtà, sul tema dei diritti civili è pura fantascienza.