Sin dalla notte dei tempi, vicino ai fiumi, sulle loro sponde fertili e bagnate, le più antiche civiltà hanno avuto origine, traendo dalle potenzialità dell’acqua, energia e imprescindibile nutrimento in una cadenzata e simbiotica quotidianità.

La stagionalità del suo ciclo vitale scandisce le esistenze di chi cresce, abita e lavora a ridosso delle rive. Meccanismo comune quindi, quasi ancestrale, da cui il nostro Po e le località sviluppatesi lungo i suoi margini, non hanno prescisso.

Difatti il corso del fiume più maestoso d’Italia,  è stato popolato da migliaia di persone che sono riuscite  progressivamente a coordinare l’individuale modo di vivere alle peculiarità dell’elemento naturale; riuscendo perfino a dimenticare la transitorietà e la potenziale portata catastrofica che può scaturire da qualcosa che vive in autonomia e non può essere controllato dall’uomo.

Ed è proprio da questo assioma che il documentario Po di Andrea Segre, scritto da Gian Antonio Stella, in concorso al Pordenone Docs Fest- Le Voci del Documentario (2022), prodotto da Luce Cinecittà e distribuito da ZaLab FIlm, prende spunto per raccontare l’esondazione del Po avvenuta il 14 novembre 1951.

Po
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L’argine sinistro di “Po”, come viene chiamato da tutti senza articolo o declinazione, all’improvviso si spaccò completamente e in pochissimi minuti le terre del Polesine, dalle campagne fino alle città (Rovigo, Adria, Cavarzere), vengono sopraffatte ed invase dall’acqua. La rilevanza del disastro è incommensurabile. In una delle regioni all’epoca più povere d’Europa, la veemenza e la furia cieca della distruzione si sono abbattute, travolgendo le già diroccate abitazioni dell’indigente popolazione.

Intere famiglie, con il loro bestiame e gli esigui averi posseduti, rimasero intrappolati sui tetti delle case sommerse cercando, spesso invano, di salvarsi, scappando su zattere improvvisate dove a malapena una persona sarebbe riuscita a salire.

La mobilitazione, i soccorsi e la solidarietà nazionale (e internazionale) non tardarono ad arrivare: il Governo e tutte le forze politiche, sia “bianche” che “rosse”, intervennero tempestivamente. Gli aiuti, forse non così disinteressati, non bastarono però a sopperire la gravità della situazione e più di 130.000 polesani dovettero fuggire in cerca di salvezza nell’industrializzato e poco fraterno Nord.

Poveri lavoratori di campagna e instancabili mondine, con marcato accento e mani rovinate dal duro lavoro, subirono anche l’ignominia della tragedia e il divenire, prima oggetto di pietà mediatica, poi un peso di cui liberarsi. Anche centinaia di bambini ebbero lo stesso trattamento di totale mancanza di empatia e furono strappati ai genitori e assegnati a retrogradi istituti religiosi.

Un avvenimento negativamente straordinario nella sua interezza che il documentario racconta, articolando una narrazione concepita con lo scopo di rappresentare cronologicamente quanto accaduto, avvalendosi di due distinte ma compenetranti modalità di testimonianza.

Al resoconto diretto di quelli che erano i giovani polesani, oggi ottantenni, si uniscono filmati in pellicola, perfettamente conservati nell’Archivio Luce, che intervallano le struggenti parole di chi ha vissuto sulla pelle la distruzione e la perdita, quando ancora era nell’età dell’inconsapevolezza, aggiungendo l’oggettività storica all’evento, a volte dimenticato.

Sono ricordi raggelanti e allo stesso tempo teneri, quelli che le donne e gli uomini intervistati regalano alla telecamera, permettendole anche di riprendere le loro attuali attività e dimore, avendo la forza di non distogliere mai lo sguardo, ancora vivido di dolore, mentre orgogliosamente raccontano cosa è successo e quanta sofferenza abbiano dovuto introiettare.

Ad essere mostrati, infatti, sono i luoghi della memoria ancora pulsanti di sensazioni che nonostante gli anni trascorsi, si aggrovigliano nello stomaco tramutandosi in nodi alla gola e brividi lungo la schiena, a riprova dello strazio di un trauma che ha cercato di cancellare il ‘prima’ misero ma spensierato della vita rurale, da cui è scaturito un ‘dopo’ impossibile da metabolizzare nella difficile presa di coscienza che quell’amato fiume, fonte essenziale e compagno giornaliero, in un solo istante è diventato nemico inarrestabile e travolgente. Un viaggio intenso che, nelle intenzioni del regista, si oppone alla retorica della celebrazione e “prova a trarre un insegnamento universale, necessario anche al nostro presente, al nostro futuro”.