Che Notturno sia fin qui il film migliore di Gianfranco Rosi lo dice la bellezza: non è più estorta o imposta o perfino sovrapposta alla realtà che inquadra, ma scovata, rivelata, dunque preservata. Certo, l’artificio c’è, il dispositivo si sente, Rosi quello è, e forse qui un po’ fa ammenda, o meglio dichiarazione d’intenti: quando mette in scena le prove teatrali di un istituto psichiatrico, vuole dirci che il suo è documentarismo teatralizzato, coreografato?

Sia come sia, Notturno in Concorso a Venezia, e poi Oltreoceano a Telluride, Toronto e New York con affaccio Oscar, è un film che delega alla bellezza la sopravvivenza dell’umano e, viceversa, all’umanità la sopravvivenza del bello: un esterno notte girato nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano guadagnando la luce nel buio, senza tempo e senza spazio, nel continuum di chi rimane e, anche, chi non è più. Incontri e immagini in cui la macchina è letteralmente da presa, la posizione morale, il calco arrestato un attimo prima – non sempre - che sia calcolo.

Incontri non protetti, non lo sono quelli dei bambini - ed è grave, si doveva oscurarne il viso o riprenderli di spalle, grave - che mettono su carta e a verbale le violenze inferte dall’Isis, eppure, la salvezza abita qui, e non solo perché sullo schermo ci sono i salvati, gli scampati, i reduci, ma perché la salvezza ha a che fare con la bellezza, ne è consustanziata: la notte, la guerra, rivela la luce.

Dopo tre cartelli iniziali che addebitano all’ingerenza occidentale il vulnus del Medio Oriente qui e ora – sono tagliati con l’accetta, incongrui rispetto alla successiva assenza di didascalie, giacché non si dice mai dove e quando siamo, e ce li saremmo volentieri risparmiati – il documentario, che non ha l’irrilevanza di Sacro GRA (2013) né la superfetazione di Fuocoammare (2016), ci prende per gli occhi e ci porta tra i canti luttuosi della madri a cui hanno torturato e massacrato i figli, i ricordi dei bambini marchiati a fuoco dall’orrore, le prove dei pazienti psichiatrici che inchiodano la politica alle proprie responsabilità.

Il montaggio molla le attrazioni e coglie le sensazioni, il patchwork è disomogeneo e disallineato, come l’umano stesso: un cantore di strada che sveglia la città lodando Allah, un ragazzino che caccia e assiste cacciatori per sfamare la famiglia, un altro che cerca selvaggina tra canneti e crepitio di armi da fuoco. L’immagine più evocativa la dispensa quest’ultimo, quando la sua piroga scorrendo sull’acqua sposta le piante e lascia una scia luminosa: il buio trova la luce, la notte la sospensione dell’incredulità, ovvero della resa al pessimismo.

8Tra guerrigliere curde che si riscaldano, madri yazide che ascoltano i vocali whatsapp delle figlie ancora nelle mani dell’Isis e carnefici di Daesh ammassati nelle celle, Notturno trova poetica e stile controllati, molto, ma non arte-fatti. Viene in mente, e chissà il titolo non venga da lì, il leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Dove sta scritto, della luna, “E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo”.