L’abbinata maternità & scienza può essere fatale: allo spettatore. Dopo Little Joe di Jessica Hausner, passato nell’indifferenza generale in Concorso a Cannes 2019, a confermare la perniciosità è My Zoe, scritto, diretto e interpretato da Julie Delpy, che ha fatto tantissime cose ma per tanti rimane la partner di Ethan Hawke nella saga Before.

A mettere insieme i due film, ancor prima che poeticamente programmaticamente, è l’International Film Festival & Awards di Macao, che celebra la quarta edizione dal 5 al 10 dicembre sotto la direzione di Mike Goodridge.

In anteprima al Festival di Toronto, My Zoe segue a Berlino la difficile separazione tra la genetista Isabelle (Delpy) e l’architetto James (Richard Armitage): in ballo c’è la custodia della figlia, Zoe (Sophia Ally), che entrambi amano senza risparmio. Quando la piccola entra in coma, le tensioni già più che latenti nella (ex) coppia arrivano al parossismo, e non è finita: Isabelle dovrà prendere nelle proprie mani il destino e complice un controverso medico (Daniel Brühl) affrontare sfide inimmaginabili, sopra tutto eticamente.

Nel cast anche Gemma Arterton, la passione della Delpy è nota e si fa apprezzare, ma – senza spoilerare – l’inversione a U cui costringe il film è da ritiro della macchina da presa: nato e cresciuto come dramma sul divorzio e l’affidamento condiviso, a un certo punto molla gli ormeggi e s’imbarca per la fanta-scienza, lasciando a terra verosimiglianza e solidità per lo sconcerto dello spettatore. Che una madre possa spingersi oltre le colonne d’Ercole per la propria bambina è cosa buona e giusta, che lo faccia anche il film, be’, se ne può discutere, ma di certo in questi termini è sindacabile: teoricamente e teoreticamente perfino intrigante il mix, ma maternità, riproduzione ed etica sono temi da trattare coi guanti, anche in sceneggiatura.

L’angoscia nuda e cruda della Delpy non ha la lucidità poetica e drammaturgica che si converrebbe. Peccato, anzi, hybris. Vale per Zoe, vale per Joe: assonanti loro, scontenti noi.