Anche a non saperlo prima che Anthony & Joe Russo, registi del primo incasso della storia del cinema, Avengers: Endgame, producono questo Mosul, retrospettivamente è impossibile non spiegarsi anche così la quantità abbondante d’azione in questo densissimo film, presentato fuori concorso a Venezia76.

In questa fotografia della guerra all’Isis, o a Daesh, per usare il linguaggio (arabo) dei protagonisti, l’azione non è solo abbondante, ma anche qualitativamente distinta. Movimenti di macchina e stacchi sono ordinati, puntuali al secondo, con grande merito del consumato scrittore ma regista all’esordio, Matthew Michael Carnahan (sceneggiatore tra l’altro di World War Z e, sempre prodotto dai Russo, 21 Bridges). La tensione si respira palpabile anche quando l’azione non c’è, ma è caldamente attesa.

Mosul, quindi, ritaglia in modo netto il proprio target di riferimento, ampliandolo appena con una storia orizzontale, tra i vari exploit del conflitto, onesta e senza grandi pretese. Tant’è che, dopo il culmine della missione degli SWAT in territorio nemico, il finale narrativo tende a essere un paracadute, più che un rilancio vero e proprio.

Quel che colpisce, invece, è l’epilogico tributo a chi, in quella missione, è morto realmente. Esiste una storia vera, da cui il film prende (liberamente) le mosse, e non dev’essere stata meno cruda di quella vista al cinema.

La pellicola, dunque, tra delicatezza della materia trattata e picchi di tensione, ma cali narrativi, gestisce tutto sommato bene un mix di elementi che, nel risultato finale, si distingue, e non sfigura, nemmeno alla settantaseiesima Mostra d’Arte Cinematografica.