Come mostrava un film bellissimo come Detroit di Kathryn Bigelow, il pensiero, la parola e l’azione nascono dalla visione e quindi le dinamiche di potere sono anche o forse soprattutto dinamiche di sguardo. Monsters and Men, esordio di Reinaldo Marcus Green, ha questo elemento al centro della sua riflessione sulla questione razziale: il vedere e l’essere visti.

Tutto nasce da uno degli innumerevoli e immotivati omicidi che la polizia commette ai danni degli afro-americani. Un ragazzo riprende la scena e deve decidere se rovinare la sua vita diffondendolo; un poliziotto nero fa i conti con il significato del suo ruolo nei confronti della sua comunità; il figlio di un poliziotto nero sta per entrare in una grossa squadra di baseball, ma l’esigenza dell’attivismo bussa alle porte.

Tre storie intrecciate, scritte dal regista con Justin Chan e Scott Cummings per un dramma civile in cui ciò che non si vede conta quasi più delle immagini.

Anthony Ramos e John David Washington in Monsters and Men

L’evento scatenante per esempio, l’omicidio e il conseguente video, non sono mai mostrati da Green per riprendere le reazioni di chi lo ha visto, e la differenza abissale tra la testimonianza diretta e la mediazione dello schermo, e costruire su quelle reazioni i tre racconti morali di Monsters and Men (Fa’ la cosa giusta, per dirla con Spike Lee); ma gli sguardi dei poliziotti, delle camere di sorveglianza, della macchina da presa dello stesso Green segnano il clima di paranoia e allo stesso tempo innescano il bisogno di reazione delle vittime, di chi è fuori dal canone del potere (il maschio bianco, che anche lui si vede pochissimo, giusto il tempo di incutere timore o far pesare la propria posizione di dominio).

Ha una costruzione registica e visiva pensata e convincente e di sicuro una notevole consapevolezza intellettuale e socio-culturale Green, ma gli manca ancora del tutto la maturità stilistica, come se il messaggio fosse davvero l’unico interesse (comprensibile, per carità, e condivisibile) per il regista e che avesse paura che le possibili complessità della forma lo frenassero: basta guardare l’uso dei primi piani e della musica di Kris Bowers, che cercano di forzare l’emozione di un film che punta altrove, rendendolo paradossalmente freddo e sospeso. Ma puntuto, nonostante tutto.