E' ancora Tati, ed è ancora magia. Sua la sceneggiatura (ideata nel '53, redatta e lasciata incompiuta 6 anni dopo: cambiamenti fondamentali, da Praga si passa a Edimburgo, e il focus è su un rapporto padre-figlia assolutamente platonico), suo lo zampino immaginifico e umanista de L'illusionista, la nuova toccante animazione del regista di Appuntamento a Belleville, Sylvain Chomet.  
Protagonista, è un mago lungagnone e intristito - ricorda la fisionomia dello stesso regista, sceneggiatore e mimo francese - che nonostante la palese bravura, il coniglio bianco e mordace, i trucchi affascinanti non riempie più i music hall: la salvezza gli viene da una giovanissima ragazzina scozzese, che lo seguirà a Edimburgo, tra agenti truffaldini, doppi lavori e show nelle vetrine dei negozi. Eppure, saprà restituirgli il sorriso, anzi, la speranza, che il mago ricambierà con doni (scarpe e vestiti) e, infine, la libertà di entrare sola nell'età adulta.
Realizzato con animazione tradizionale per umani e animali, digitale per città e sfondi, il film arriva nella carriera di Chomet dopo i 4 César e le due nomination agli Oscar di Belleville, di cui ricorda tratti di matita e tratto sprituale: nella relazione tra il mago e la bambina, si filtra la paternità, la mercificazione dell'arte, l'apologo della modernità, la vita al di là dell'esistenza, il rimpianto per un mondo che non c'è più. Insomma, è un'animazione per grandi e piccini, stratificata e insieme lieve, quasi eterea, come le splenide musiche composte dallo stesso Chomet: senza le mirabilie (?) del 3D e i freddi miracoli in CGI, L'illusionista ci riconsegna lo stupore del fanciullino e la saggezza che, col passare delle primavere, guarda l'abisso della disperazione. Soprattutto, conferma ed esalta l'approccio che l'animazione europea deve tenere per far fronte allo strapotere industriale dei cartoon stelle & strisce: piccolo è bello, piccolo è grande. Nell'illusione dell'arte.