Potrebbe essere un perfetto racconto d’orrore: l’ossessione di Edgar Allan Poe e il feticismo di William Lustig. Le daim però è un film di Quentin Dupieux, regista e dj eclettico e bizzarro che ha fatto dell’umorismo surreale e grottesco il suo marchio di fabbrica, per cui diventa il curioso innesto tra le due modalità.

Il protagonista (Jean Dujardin) è un uomo che si trova ossessionato da una giacca di cervo comprata mentre sta fuggendo, forse, dalla sua vita.

Si isola in un piccolo paesino montano in cui finge di essere regista, ma la giacca comincia a occupargli la mente con un proposito: diventare l’unica giacca esistente al mondo e fare di lui l’unico proprietario di una giacca.

Dupieux, che oltre a dirigere, scrive, cura la fotografia e monta, realizza un horror comico e straniante in cui l’oggetto del desiderio diventa il meccanismo della perversa ironia del regista ma anche il veicolo attraverso cui esplicitare una riflessione umanistica.

Riflessione che a ben guardare è sempre stata sul fondo dei suoi film attraverso oggetti o figure inumane come lo pneumatico di Rubber o il cane di Wrong: qui lo strappo dell’umanità del protagonista, la cui personalità si scinde per infondersi nella giacca, è anche lo strappo della dimensione umana del cinema - digitale fuori ma analogico dentro, quindi a sua volta scisso - il cui sogno di potenza diventa una richiesta d’aiuta vestita da orrore.

Il regista la racconta non derogando dal suo modo di creare universi visivi e narrativi folli, ma in cui la follia nasce solo dal contrasto con le aspettative dello spettatore perché al suo interno è seguita da tutti, condivisa, accettata e portata all’estremo.

Dupieux racconta a suo modo di cosa è fatta un’identità in frantumi e dei modi per ricomporla, ma non cerca sottigliezze e metafore: è tutto esposto, e quindi ridicolizzato, è tutto detto come nella scena in cui la montatrice interpretata da Adèle Haenel spiega il film che il finto regista sta girando (e che a livello di meta-cinema sembra un atto d’amore verso il gesto del montaggio.

Nel dire ciò che pensa, Dupieux mette alla berlina sé stesso, rivolta la macchina da presa verso sé stesso e forse si mette in gioco. Nel suo Le daim niente è serio, ma tutto appare grave, anche la risata.