Di necessità pandemica virtù autarchica: era da undici anni, Alberto Barbera dixit, che un film italiano non apriva la Mostra di Venezia, ricapita con Lacci, diretto da Daniele Luchetti, tratto dal romanzo di Domenico Starnone. Scritto dai due con Francesco Piccolo, è interpretato da Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini, Linda Caridi: Fuori concorso, apre il 77 festival.

E lo fa senza alcuna infamia e con qualche lode: gli attori sono uniformemente bravi; la qualità dei dialoghi è decisamente sopra la media, la media italiana del dramma familiare et similia almeno; la regia, senza essere di mero servizio né di converso dare nell’occhio, fa il proprio lavoro.

Certo, qualcuno storce il naso perché Luigi Lo Cascio e Silvio Orlando cui tocca incarnare Aldo giovane e maturo non si rassomigliano, e lo stesso accade per Alba Rohrwacher e Laura Morante chiamate a rendere Vanda, ma è una mancanza di consecutio – letteralmente – visuale per cui non ci sentiamo di batterci: anzi, ben venga, meglio quattro attori capaci che due a due rassomiglianti e basta pretendere raccordi mimetici, un po’ di libertà.

Comunque, nella Napoli dei primi anni ’80 Aldo, che lavora in radio Rai a Roma, si innamora della giovane Lidia (Caridi) e lascia la moglie Vanda e i due figli, Anna e Sandro. Trent’anni più tardi, Aldo e Vanda sono ancora insieme, anche se la seconda, e non solo lei, ha molto da recriminare. Lo scontento, eufemismo, è anche per i figli, da cui Vanda e ancor più Aldo vengono massicciamente ricambiati: i lacci del padre, che tramanda a Sandro (Giannini) e infine ad Anna (Mezzogiorno) un modo tutto suo di legare le scarpe, non li tollerano più, e nemmeno la casa dove sono cresciuti.

Tradimenti e dolore, abbandoni e ritorni, segreti e lealtà, il dramma riflette sulle geometrie variabili e davvero poco cartesiane delle relazioni, sentimentali e familiari, cercando di non cedere troppo campo a piccinerie, meschinerie e sotterfugi, ma nemmeno di trascurarli: la vita, senza altari né altarini, e non c’è bisogno di conoscere il significato latino di Labes, affibbiato al gatto domestico, per sapere di che cosa sovente sia fatta, dalla vergogna alla caduta, passando per il rancore. Già, di che cosa parliamo quando parliamo di amore che non è più?

Troppo arredante nelle scenografie e sfacciato nei costumi (anche la filologia richiede misura), musicato con tatto e ordinato nel montaggio, Lacci fa di tutto per sconfessare quel che, mutatis mutandis, Anna attribuisce a Aldo: essere un film banale che dice cose acute. Ci riesce, un po’.