Terminato l’addestramento, la recluta Leo (Anthony Bajon) ottiene il primo incarico: girare per le strade di Parigi e sventare potenziali minacce terroristiche. Ma un’altra minaccia, forse più letale, gli cova dentro. Esordio al lungometraggio di finzione del regista italiano Giovanni Aloi, noto per i corti E.T.E.R.N.I.T. (2015) e A passo d'uomo (2014), La troisième guerre è un film di produzione francese, inserito nella sezione Orizzonti della 77. Mostra di Venezia.

Scritto con Dominique Baumard e girato con una certa cura formale, nasce dall’osservazione delle pattuglie di soldati con i mitra imbracciati nella città francesi, in primis la Capitale, dopo gli attacchi dell’Isis: “Una guerra che forse non è più quella che conosciamo, bensì una fantasia di guerra. La tensione del film deriva da questa consapevolezza: nessuno sa come effettivamente sia una guerra”.

Va detto, il film non ha il voltaggio poetico per aprire squarci di consapevolezza filosofica sul tema, piuttosto assegna a Leo le stimmate del disturbo da stress post traumatico sebbene non abbia sparato un colpo fuori dalle esercitazioni né sia mai stato attaccato: il trauma, dunque, è la condizione stessa dell’essere soldato oggi, ovvero un Godot armato e al passo per la Ville Lumière.

Tra i commilitoni c’è chi c’ha i problemi, tutti: la sergente (Leïla Bekhti) che cerca una promozione e nasconde un segreto; lo spaccone (Karim Leklou) che millanta un’inesistente gavetta in Mali; lo spacciatore che finisce un po’ male; il disertore o quasi; lo sbruffone che viene alle mani; il tenete di ferro.

Tutte cose che abbiamo già visto, se non che il teatro di guerra è cambiato, e lasciare fuori il privato e i problemi nella guerra di sospensione contro il terrorismo islamico è ancor più difficile: Leo ha una mamma alcolizzata da cui ha preso qualcosa, si interessa – trovata non felice – della compagna di uno spacciatore che ha contribuito a far arrestare, barcolla tra superomismo e svago, senza troppa soddisfazione.

Aloi ha il senso della tensione, meno l’attitudine alle sfumature psicologiche, cui troppo spesso preferisce il sintomo o la verbalizzazione: per farla breve, soggetto, temperie e regia sono promossi, sceneggiatura, trovate e superficialità dei caratteri assai meno.