Si apre sulla neve e finisce nel fuoco, ma il protagonista è sempre - prima ragazzino poi giovane uomo - solo, spaesato, abbandonato più che dagli altri da ciò in cui credeva. Jan Palach, il film che Robert Sedlácek dedica al simbolo della rivolta di Praga al regime comunista a quasi 50 anni dalla morte, semina lungo la sua durata tutta una serie di elementi che non riesce a far coagulare.

 

Della vita del ragazzo morto come torcia umana nel ’69, il film racconta gli ultimi due anni di vita, quelli in cui i tentativi di liberalizzazione della società cecoslovacca raggiunsero l’apice con la conseguente invasione dell’Unione Sovietica: l’università, l’amore e la famiglia, l’impegno politico sempre più disilluso e disperato. Eva Kanturková sceglie un taglio abbastanza preciso alla storia di Palach, cerca anche di impostare un tono - per esempio seminando le descrizioni di riferimenti al fuoco e alla morte, come a sottolineare le pulsioni suicide di Palach, ma resta tutto sulla carta.

 

A Jan Palach manca del tutto l’energia - che sia vitale o funebre - delle vite che racconta, mette in scena un gesto estremo come fosse un dato di fatto, senza creare intorno a quel gesto un contesto emotivo o politico forte e coinvolgente (tranne l’atto in sé nell’ultima sequenza, l’unica in cui si possono vedere delle scelte di regia), come se l’energia del cinema fosse annullata dalle esigenze dell’illustrazione, come a voler paradossalmente dimostrare che una buona storia è niente senza un buon narratore.

 

“Viaggia molto, il mondo è pieno di colori” dice un professore a Palach: vorremmo rivolgere la stessa esortazione a Sedlàcek. Il suo film sembra cosparso della polvere accademica, del grigiore anestetico di molta fiction televisiva, di cui anche quest’opera fa parte. E l’accensione bruciante del gesto finale del protagonista resta così un monito inascoltato.