Guardando questo film verrebbe da dire: Il mio corpo è una gabbia. Coproduzione svizzero-italiana con cui il regista Michele Pennetta chiude idealmente la sua trilogia siciliana ('A lucata nel 2013 e Pescatori di corpi nel 2016), nella quale si era confrontato con una riflessione sull'illegalità e la legalità. 

Oscar, poco più che bambino, passa le sue giornate recuperando ferraglia per suo padre e occupandosi di rivenderla, e Stanley, un giovane immigrato nigeriano, che fa le pulizie nella chiesa del villaggio in cambio di ospitalità e di un po' di cibo.

Due storie che corrono lungo due binari paralleli e che non si intersecano. Due vite che apparentemente non hanno nulla in comune se non la totale mancanza di prospettive e di futuro. E un luogo da condividere: un'isola che li tiene prigionieri.

In questo entroterra siciliano fatto di lande gialle e selvagge, di miniere di zolfo abbandonate, un tempo luoghi affascinanti e oramai testimoni di un benessere e di una ricchezza perduti, si muovono queste due anime in pasto al mondo, succubi del proprio destino fatto di scelte altrui. I loro corpi, ingabbiati da sbarre immaginarie, ma non per questo meno resistenti, nel mezzo di questo territorio brullo e arido, abbandonato e disastrato, trovano un respiro di libertà solo in brevi momenti fatti di discese in bicicletta, balli, basket e bagni al mare.

A metà tra il doc e il cinema di finzione, anzi si potrebbe definire un film del reale, Il mio corpo (on demand sulle piattaforme Zalabb, #iorestoinSALA, CG Digital e dal 18 marzo su Chili, distribuito da Antani Distribuzione in collaborazione con Kio Film) ci restituisce un frammento di realtà e di verità, frutto di un incontro e di un'osservazione antropologica, e ci racconta due esistenze ai margini con grande forza e poesia.