Il riscatto fisico ed emotivo delle donne mature o molto mature, alla soglia della terza età o dentro di essa, è un tema ricorrente nel cinema degli ultimi anni, da quando il cambiamento dei costumi e delle percezioni ha acceso i fari sulla condizione della donna dopo la menopausa, sulla sua voglia e sul suo diritto a una piena vita affettiva ed erotica, consentendo alle attrici dopo i 60 di poter avere ruoli interessanti e di poter vivere il corpo e il sesso non più come un tabù sociale e artistico, ma come un valore da raccontare.

I giovani amanti lavora su questo tema in chiave sentimentale prima che esistenziale raccontando la storia di Shauna (Fanny Ardant), settantenne che dopo 15 anni ritrova Pierre (Melvil Poupaud), un medico di 30 anni più giovane col quale intesse una relazione sentimentale intensa, che porterà l’uomo a lasciare la famiglia per la donna. Il destino è ovviamente in agguato.

Diretto da Carine Tardieu e scritto con Agnés de Sacy e Raphaële Moussafir a partire da un’idea della compianta Sòlveig Anspach, il film sembra quasi un omaggio al cinema vellutato di Claude Lelouch, al suo modo di rendere palpitanti i sottintesi del cuore e della psiche dei suoi personaggi.

Per buona parte del film è proprio sui non detti e sugli inciampi che Tardieu si sofferma, sui dettagli che rivelano qualcosa di nascosto dei personaggi e dei loro sentimenti. Un’attenzione alle piccole cose che diventano sempre più grandi e trascinanti e che permette alla regista e agli sceneggiatori di comporre una serie di ritratti sempre più credibili e complessi, da cui emerge forte il ritratto di Shauna, un ritratto sfumato e complesso, di una donna che non deve essere forte per essere meritevole di un film a lei dedicato, anzi che lavora sulle sue fragilità e incertezze per costruire un rapporto sentimentale né pazzo né comune, ma onesto e messo in scena con sincerità.

I giovani amanti © Christine Tamalet & Thibault Grabherr
I giovani amanti © Christine Tamalet & Thibault Grabherr
I giovani amanti © Christine Tamalet & Thibault Grabherr
© Christine Tamalet & Thibault Grabherr

E poi arriva il melodramma, rendendo espliciti e un po’ calcati i non detti di cui si accennava poco sopra. Non è di per sé un problema, seppure sembra un modo un po’ convenzionale di portare un racconto a chiusura, ma è una scelta che cambia i toni e anche i presupposti del film, che quasi rinnega ciò che Tardieu aveva fatto fino a quel momento.

I sussurri dei sentimenti e delle emozioni dei personaggi assumono i tratti del ricatto emotivo, la spudoratezza degli eventi tradisce il tocco preciso raggiunto fino a quel momento e non trova nella messinscena la sponda per tramutare la scrittura in immagine e comunicazione con lo spettatore. Soprattutto però, il vero problema di quella scelta narrativa (che non esplicitiamo) è che ribalta in modo del tutto arbitrario, mai giustificato dal racconto stesso, il peso dei personaggi nell’economia del film, inverte il senso dei ritratti fatti fino a quel momento.

Non si capisce perché il ritratto di una donna che lotta contro una società che vede quella sua intimità come proibita e fastidiosa debba diventare, per amore di colpo basso e di lacrima facile, la solita narrazione che ruota tutta intorno all’uomo, al suo senso di colpa, alla sua nobiltà di animo verso l’amata e che costringe Poupaud a gestire tutta una serie di passaggi mimici e cambi di tono che l’attore e la regista non sanno gestire al meglio, a differenza di Ardant che invece un ruolo così lo domina con grande professionalità e talento e avrebbe meritato un film più equilibrato. Proprio come faceva il Lelouch dei tempi migliori.