L’assenza di respiro come pratica erotica ma anche come modo per sopportare il peso di un addio: su questo paradosso, il finlandese J.-P. Valkeapää ha costruito Dogs don’t Wear Pants, giocando tra commedia nera e dramma familiare.

Perché in effetti, al protagonista muore la moglie annegata (suicida?) e anche lui rischia la vita per salvarla. Anni dopo, entra in casuale contatto con una mistress e comincia a interessarsi alle pratiche sadomaso, specie al soffocamento controllato: ma il rapporto con la ragazza, e quello con la sua psiche, rischieranno di portarlo molto lontano. Il regista assieme a Juhana Lumme sceglie di raccontare questo percorso nell’abisso psicologico venandolo di umorismo che sporca il pathos, ma s’inceppa proprio nel suo progredire.

Valkeapää lavora molto bene sull’atmosfera visiva, utilizzando scenografie, luci e colori, la musica per restituire il senso di smarrimento e fascinazione verso mondo che non è realmente proibito ma resta un tabù soprattutto perché porta Eros e Thanatos a strettissimo contatto l’uno con l’altro (ed è la migliore intuizione della sceneggiatura), facendo in modo che l’uno si vibi dell’altro.

Ma poi subentrano le semplificazioni, come se il regista non abbia voluto o potuto approfondire davvero quel discorso sull’abisso, come se avesse dovuto tornare al pathos in modo anche un po’ moralista (sebbene il finale possa suggerire il contrario).

 

Se certi colpi d’accetta visivi sono comprensibili, meno lo sono quelli narrativi che paiono pensati secondo la scelta più facile (o banale) per raccontare, i meccanismi emotivi dei personaggi appaiono sempre sopra le righe e stonati e il tutto si riduce a un elaborazione del lutto che il colpo di coda un po’ posticcio e consolatorio non rende davvero beffarda.

Dogs don’t Wear Pants cerca la reazione immediata e istintiva del pubblico, la risata o il sussulto, con mezzi non proprio finissimi, ma si dimentica le sfumature, si dimentica il turbamento. Non riesce a respirare, ma non sa far godere di questo il suo spettatore.