Dietro i candelabri ha tutti i pregi e i difetti del cinema di Steven Soderbergh. Nel reinventare sul grande schermo – pardon, sul piccolo: il film è prodotto dalla HBO e originariamente pensato per la televisione – la personalità sgargiante di Walter Liberace, pianista dello showbiz rimasto sulla cresta dell'onda per quarant'anni, il regista americano mostra una volta di più di possedere un innato senso della messa in scena al netto di una sensibilità narrativa non sempre adeguata al suo talento.
Il biopic racconta dieci anni della vita di Liberace, uno scorcio d'epoca e di vita che va dal 1977 al 1986, sceneggiato da Richard LaGravenese. Brillante pianista, omosessuale non dichiarato (fino alla fine i suoi fan continueranno a pensarlo un etero in cerca della donna giusta da sposare) e istrionico intrattenitore, tanto nel pubblico quanto nel privato, Liberace è stato una specie di drag queen ante litteram, che amava bagnarsi nelle luci fiammanti del palcoscenico anche a casa.
Appariscente fuori, kitsch nell'animo, Liberace viene superbamente interpretato da Michael Douglas, quasi irriconoscibile dietro le giacche rococò, le parrucche con ciuffo, le pellicce di visone e le calzature elfiche. E Douglas mostra un'inquietante somiglianza con Bobby Solo, ma al piano è infinitamente più bravo.Soderbergh sembra perfettamente a suo agio in questo mondo barocco e scintillante, un mondo di brillori e superfici e gadget fichissimi ma inutili (spettacolari i pianoforti mobili portati in scena da Liberace). Nel restituirci visivamente questo falo delle vanitá e nel cogliere la sua perfetta aderenza con la natura del personaggio, Dietro i candelabri offre il meglio, mostrando la perfetta commutabilitá tra circuito esteriore e interiore nella vita del protagonista.
Le cose vanno meno bene invece con Matt Damon, la cui importanza nell'economia narrativa del progetto é fondamentale: Damon interpreta Scott Thorson, ex amante ed ex paggio di Liberace, ed é suo il punto di vista sulla vicenda. Esagera però la caratterizzazione “omo” facendone quasi una caricatura. Quando Damon e Douglas condividono la scena sembra in effetti di assistere a un buffo sketch en travesti.
Ma il peccato maggiore é del regista: la parabola di Thorson – prima viene strappato alla sua tranquilla routine losangelina e a un futuro da veterinario, poi sedotto dalla fiammante vita che Liberace gli offre, traviato dai suoi eccessi (la droga, la chirurgia plastica, la dieta maniacale), infine sostituito e abbandonato al suo destino – offriva a Soderbergh la possibilitá di sondare in profondità l'anima nera di Liberace, la cieca vanità, il bieco egoismo e la vocazione a bruciare tutto, tappe e affetti. Questo narcisismo patologico, esaltato dal sistema pervertente dello showbiz, non viene debitamente esplorato dal film. Viene invece messo accanto ad altri futili e ridondanti dettagli.
La morte stessa di Liberace, ridotta a una coreografica uscita di scena, piú che un omaggio rivela la superficialità dell'operazione, l'incapacità di Soderbergh ad accostarsi con verità ai propri personaggi. E condanna definitivamente il film a smentire se stesso: non Dietro, ma davanti ai candelabri.