Ogni regia di James Cameron è un primo passo verso una nuova esperienza visiva e un pionieristico assaggio di quel che succederà al cinema negli anni a venire. Basterebbe questo per consegnare ai posteri Avatar, kolossal HD 3D di cui molto si è detto e scritto, le cui cifre da capogiro (400 milioni di dollari complessivi di produzione) sono da sole garanzia di spettacolo: size matters, eccome. I Na'vi del pianeta Pandora, umanoidi senzienti alti circa tre metri, hanno però una missione da portare a termine molto più difficile che cacciare gli umani colonizzatori dal pianeta Pandora: incassare tre volte il costo del film. Che, memore di questo dal primo all'ultimo fotogramma, è sempre ben attento a bilanciare la componente sperimentale con quella commerciale, finendo per piegarsi forse eccessivamente alle regole del mainstream perché possa assurgere, oltre gli indiscutibili meriti tecnici, allo status di cult movie.
Lo spettacolo visivo lascia a bocca aperta: il Reality Camera System inventato da Cameron (e dalla Sony) ricrea un vertiginoso mondo artificiale e una visione stereoscopica senza precedenti: come senza eguali è il lavoro di performance capture (che permette alla felina Zoë Saldana di essere Na'vi dal primo all'ultimo minuto del film), la presentazione di una fauna e di una flora “vitale” il cui ruolo sarà determinante nel lungo, iperdinamico epilogo finale.Ma i dubbi sulla commerciabilità di un film che utilizza un manicheismo al rovescio (gli umani, di fatto, sono i “cattivi”) e i cui protagonisti sono alieni dalla pelle blu, vengono presto fugati: Cameron, abitualmente più propenso a dedicare tempo agli effetti speciali, ricorre a una sceneggiatura standardizzata e di grana grossa, che strizza l'occhio ad Aliens e bilancia qualsiasi azzardo visivo. Le implicazioni più suggestive (affidate alla “scienziata” Sigourney Weaver) sono accennate e regolarmente accantonate, mentre si punta tutto sulla centralità della love story e sull'intrattenimento emotivo dello spettatore. Ma l'accostamento tra fantascienza e sincretismo culturale, che è stata la fortuna di Lucas e di Guerre Stellari, non va oltre un superficiale accostamento con i nativi d'America: e alcune soluzioni narrative sono troppo simili ad arcinoti film western (Pocahontas, Soldato Blu, Balla coi lupi) per non stridere con quanto di “nuovo” stiamo vivendo.Con un briciolo di introspezione in più (che, per la cronaca, non ha precluso a Blade Runner un enorme successo commerciale) staremmo parlando di un capolavoro, anziché di un apripista ai sequel che, già annunciati, avranno il dovere di svelare l'universo di Cameron a uno spettatore che ne ha finora goduto solo parzialmente.