Se dovessimo fare un'esegesi appropriata di Adieu au langage, probabilmente dovremmo tirare delle linee a casaccio su una pagina bianca, sapendo in cuor nostro di non fare torto a Jean-Luc Godard: forse che il suo ultimo film, ammesso che di film si possa parlare, pretende di essere qualcosa di diverso da uno scarabocchio sotto forma di immagini?

Il primo lavoro stereoscopico del padre della Nouvelle Vague è un atto di rivolta – più disperato che arrabbiato - contro l'ideologia del linguaggio (cinematografico, scritto, verbale), un gesto di stizza contro il sistema ipnotico dei segni che ingabbia e condanna alla ripetizione. Ma finisce per essere anche uno sberleffo contro il pubblico, che pure riesce a strappare qualche risata a forza di avvitarsi, rivoltarsi, rovesciarsi e vomitarsi addosso ogni trama, sovrastruttura e coscienza estetica.

Due capitoli - natura e metafora - che si svolgono e si ripetono senza apparente logica, in cui non si racconta nulla, se non forse l'incapacità (di una coppia) di parlarsi ancora e di comprendersi, contrapposta alla nobile e intelligente solitudine del cane (quello dello stesso Godard), la cui sensibilità – percettiva e affettiva - divora la nostra. Il tema implicito dell'operazione è il conflitto tra coscienza pre-verbale (propria della natura, dell'animale) e narrazione, ovvero tra autenticità e falsificazione, spontaneità e cinema. Adieu au Langage abbraccia il primo polo del conflitto ma viene respinto, perché anche il grado zero del linguaggio è linguaggio, forma e contenuto persistono dopo la loro deliberata distruzione.

Partendo dai benedetti occhialini e negando al cinema ogni possibilità comunicativa (ogni comunicazione implica omologazione?), Godard aggredisce la visione - distorcendo appositamente le immagini in funzione anti-scopica – per comporre (?) una partitura cacofonica in cui le diverse piste - musica e dialogo - si tamponano e si annullano. La parola sottomette l'immagine - tanti i nomi di autori amati citati - ma ne è al contempo inglobata, e poi improbabili decaloghi animali, saturazioni violente di colore, mash-up deliranti, porzioni di immaginario ormai omologate al pari delle loro sorgenti (la tv, il cinema, Godard stesso), tutto frullato insieme, in un raptus anti-estetico senza fine.

Adieu au langage è deliberatamente un oggetto ad alta resistenza ermeneutica, ma siccome non esistono testi che non si possano interpretare staremo al gioco: allo svuotamento delle idee, delle parole e delle immagini, Godard oppone un blob cinestesico che si nutre di questo stesso svuotamento.

Insomma una bravata, una provocazione, un imbratto d'autore. Ma poi, in definitiva, lo sporco a chi resta?